Il dibattito

Rete Due, il sapere delegittimato

Si dice che i programmi culturali rimarranno, cambieranno solo sede. Ma il rischio è quello di perdere un luogo e un’identità

Altre voci (Ti-Press)
22 dicembre 2020
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Ho seguito anche io, con una certa apprensione, il dibattito che vede coinvolta Rete Due e, nello specifico, la sua trasformazione in un canale quasi prettamente musicale, con la riduzione drastica del parlato e quindi di tutta una serie di contenuti preziosi ed eclettici.

La sensazione, lo dico subito, è di impotenza, di frustrazione, ma anche di delusione. Una sensazione non nuova, per quanto mi riguarda: da quando ho fatto ingresso nel mondo del lavoro, inizialmente come giornalista culturale, ho sempre percepito e non a torto un’aria dimessa, a tratti tetra, come se le cose fossero sempre lì lì per precipitare. Vuoi la crisi, vuoi la mancanza di interesse per il settore, vuoi l’analfabetismo funzionale, che cresce in maniera spaventosa: la cultura sembra sempre di più qualcosa di superfluo, inutile, un lusso che non ci possiamo permettere in tempo di crisi. Anche perché la richiesta di cultura, almeno apparentemente, sembrerebbe riguardare una fascia troppo esigua di pubblico.

Il pubblico e soprattutto i giovani, su questo non possiamo non essere d’accordo, non paiono avere fame di cultura, anzi, la percepiscono come qualcosa di noioso, difficile, lontano. Pare proprio che la delegittimazione dei campi della cultura e del sapere, iniziata a grandi linee negli anni Ottanta, e proseguita negli anni Novanta nella vicina Penisola con le tv private di un signore che preferisco non nominare, tv che pure sono riuscite a inoculare il loro malefico veleno nel nostro Cantone, abbia raggiunto lo scopo che si era prefissata. La cultura è una noia infinita e gli intellettuali tronfi signori con la forfora sulla giacca che si crogiolano nella famosa torre d’avorio.

Peccato che, e sia detto non senza una punta d’amarezza, la torre, se pure vogliamo parlare di torre, non sia d’avorio; al massimo di legno, se non di truciolato. Perché questi snob che guardano tutti dall’alto del loro sapere hanno perso la partita (si spera non il campionato, ma la speranza si affievolisce sempre più). E peccato che il mercato, compreso l’intrattenimento, che tutti a turno si affrettano a difendere, ne esca invece trionfante. Basta gettare un occhio alle classifiche dei best seller per capire che anche i libri più letti e comprati spesso non hanno molto a che fare con la cultura, intesa nel suo senso originario, da “coleo” latino, ovvero coltivare, faticare affinché il terreno possa dar frutti.

La cultura, spiace dirlo, non è divertimento, ma fatica. Una fatica, certo, foriera delle più grandi scoperte e gioie, anche se non è scontato trasmettere queste soddisfazioni, e lo sa bene chi svolge la professione di insegnante.

Certamente anni e anni di lavoro sotterraneo per minare alla base quanto precedentemente costruito, ovvero l’idea che i cittadini e le cittadine, con il ragionamento e le riflessioni che sorgono dalle letture, ampie e vaste, ma anche dal teatro, dal cinema e dalla musica, potessero diventare consapevoli, accedere a quel progetto che non so chiamare con altro nome se non “cittadinanza”, pieno di cose belle e preziose che stiamo mettendo in pericolo, hanno portato a questo – lasciatemelo dire - deprimente risultato. L’intrattenimento è veloce, subitaneo, fa nascere solo voglia di nuovo intrattenimento: tutto in linea con il mercato, che ha come solo scopo quello di far profitto, in una delirante mania dell’usa e getta.

Recentemente ci si è chiesti quale sia il confine fra cultura e intrattenimento: potrei azzardarmi a dire che un prodotto culturale resiste al tempo, mentre un prodotto legato all’intrattenimento viene subito sostituito. Ma forse nemmeno questo vale; non sempre.

Andiamo più a fondo. Se la cultura lavora nel costruire un progetto di cittadinanza, una riflessione sui fondamenti della comunità, anche in maniera scomoda e talvolta pericolosa, l’intrattenimento distrae, ci porta via dal nucleo, del senso più profondo. Con questo non voglio certo dire che l’intrattenimento vada demonizzato, sia chiaro. Dalla tv e dalla radio, per dire, mi aspetto che ci siano le serie tv, le commedie leggere e i programmi leggeri, perché avremo pur il sacrosanto diritto di evadere, ogni tanto, ma mi aspetto anche che accanto a queste forme esistano e abbiano spazio dibattiti politici, interviste, documentari, rubriche e spazi di riflessione sulla musica, sulla letteratura, sull’arte e sul teatro.

Personalmente non mi sento tanto bene se vengo a sapere che anche quel tesoro che è Rete Due, patrimonio riconosciuto e apprezzato non solo nelle nostre lande ma anche oltreconfine (di recente, sulle pagine social di giovani amici intellettuali e scrittori italiani, è circolato un bellissimo servizio su Cristina Campo realizzato proprio dalla nostra rete anni fa), naviga fra marosi.

Si dice che i programmi culturali rimarranno, cambieranno solo sede. Ma il rischio è quello di perdere un luogo e quindi un’identità; di sfaldarsi, nel tempo, fagocitati da altre forme, più immediate.

Chiudo con una riflessione: se il pubblico non chiede la cultura, non è perché non ne abbia bisogno. E se chiede il nuovo telefonino, non è perché ne abbia necessariamente bisogno. Sappiamo benissimo che i bisogni e i desideri non nascono su un territorio vergine, ma crescono su radici ben piantate, create ad hoc; indotte, in altre parole.

E lo scopo del servizio pubblico, che sappiamo essere in difficoltà economiche, certo, è anche quello di andare in controtendenza. Di essere coraggioso e di piantare con fermezza i semi. Questo è, in fondo, il lavoro da fare.

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