Estero

I tormenti dell’Ucraina in cento date

Un brillante saggio della storica Giulia Lami ci aiuta a capire come si è arrivati fin qui, ma soprattutto da dove si partiva

(Keystone)
4 gennaio 2023
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Quando si parla di Ucraina molti contestano ai media un approccio bidimensionale, schiacciato sull’estenuante presente dell’invasione. Eppure non solo il conflitto si trascina dal 2014, ma la stessa Ucraina arranca da secoli lungo un tormentato e mai compiuto percorso di autonomia e affermazione nazionale. Per allungare la prospettiva è utile – e illuminante – leggere ‘L’Ucraina in cento date. Dalla Rus’ di Kyïv ai nostri giorni’, scritto da Giulia Lami e appena pubblicato dal piccolo e raffinato editore pisano Della Porta, specializzato in testi storici (disponibili in libreria e su tutti i maggiori portali, anche in formato e-book). Docente di Storia contemporanea d’Europa fra Est e Ovest e Storia dell’Europa orientale all’Università degli Studi di Milano, Lami ci aiuta a muoverci nelle vicende d’un Paese così vicino, eppure così estraneo ai più.

Per alcuni l’Ucraina è come l’Italia secondo Metternich: "Un’espressione geografica", un insieme di territori più che una vera nazione. Cosa ne pensa?

La frase di Metternich alla sua epoca poteva suonare vera, eppure l’Italia ha poi dimostrato d’essere tutt’altro. Lo stesso si potrebbe dire dell’Ucraina. Il suo percorso di state building risente chiaramente dei tormentati trascorsi imperiali, che arrivano fino all’impero de facto dell’Unione Sovietica, al netto di una breve parentesi di indipendenza durante la prima guerra mondiale. L’Ucraina per come la conosciamo oggi è anche il risultato di quanto scaturito da Lenin e Stalin, con l’aggiunta della Crimea nel 1954, all’epoca di Kruscev. Tuttavia, lungo questo percorso è rimasta salda negli ucraini la volontà di essere riconosciuti come tali, anche quando ciò comportava la censura della potenza dominante di turno, dunque un ritardo nell’affermazione dell’Ucraina sulla mappa psicologica e culturale europea che si sconta ancora oggi: permangono dubbi sull’identità e la legittimità della nazione Ucraina che a nessuno verrebbe in mente di sollevare, ad esempio, per la Polonia o i Paesi Baltici.

Mosca occupa ormai da otto anni la Crimea. C’è chi ritiene che la sua perdita, insieme a quella del Donbass, sia inevitabile per un accordo di pace con Vladimir Putin, oltre che coerente con le aspirazioni e i legami nazionali e linguistici dei residenti. C’è del vero?

Ne dubito. Il Donbass è parte dell’Ucraina fin dagli albori dell’epoca sovietica, mentre parlare russo non esclude di sentirsi ucraini. Il fatto che in una parte circoscritta siano nate due repubbliche separatiste non toglie che un loro distacco sarebbe sostanzialmente artificioso. Discorso diverso per la Crimea, effettivamente aggiunta all’Ucraina a posteriori – per ragioni politiche, economiche, industriali – e in cui la componente tatara e ucraina che non si sente "russa" è in minoranza

Un biennio fondamentale per comprendere le relazioni degli ucraini con Mosca è il 1932-33: gli anni dell’Holodomor. Si trattò di una carestia scatenata da mera incompetenza nella collettivizzazione sovietica, oppure di un genocidio deliberato?

L’Holodomor non fu solo una sfortunata ricaduta della collettivizzazione delle campagne, avvenuta peraltro in tutta l’Urss, ma prese la forma di uno sterminio per fame: requisizione di tutti i beni alimentari, divieto di lasciare la campagna, sorveglianza armata fuori dai villaggi e nelle stazioni, chiusura dei confini hanno determinato la morte di milioni di contadini. Il ruolo attivo dello Stato-partito è innegabile, e ha fortemente contribuito al fatto che l’Ucraina non rimpianga l’Unione Sovietica e guardi piuttosto verso l’Europa.

Si discute molto anche di una presunta adesione ucraina al nazismo e al fascismo. Si ricorda ad esempio la complicità nel massacro compiuto dall’occupante tedesco a Babij Jar: oltre 30mila ebrei giustiziati e gettati in una voragine presso il cimitero ebraico di Kiev nel 1941, cui seguiranno almeno altre 60mila vittime, tra dissidenti e prigionieri di guerra. Si contesta anche il riaffiorare del ‘banderismo’, ovvero quella peculiare forma di fascismo ucraino che negli anni ’30 ebbe il suo ‘eroe’ in Stepan Bandera (al quale il presidente Viktor Jushenko, leader della ‘rivoluzione arancione’ del 2004, dedicò una statua nel 2010). Per non parlare del famigerato Battaglione Azov con le sue insegne nazisteggianti. L’europeismo e l’atlantismo ucraini strizzano l’occhio all’estrema destra?

A mio giudizio, no. Il fenomeno del collaborazionismo si sviluppò in tutte le nazioni occupate dai nazisti, in Ucraina soprattutto nelle regioni che allora erano polacche, anche in chiave antisovietica. D’altra parte, furono invece circa otto milioni gli ucraini morti combattendo contro Hitler nell’Armata Rossa. I collaborazionisti speravano di trovare presso la Germania una sponda per la costruzione di uno Stato ucraino indipendente. Ma questo non era affatto nelle intenzioni del Terzo Reich, e infatti quell’illusione si esaurì già nel 1942. Oggi Bandera è visto come un simbolo nazionale di ribellione a prescindere dai trascorsi storici, anche perché un dibattito su questi temi sotto l’Urss è stato di fatto proibito, con l’etichetta di ‘banderista’ usata nel secondo dopoguerra per reprimere qualsiasi rivendicazione di libertà. Certo però che sarebbe opportuno oggi riconsiderare storicamente certe figure ed epoche prima di sfruttarle per ottenere consensi, alienando le simpatie europee. Quanto al battaglione Azov, coi suoi simboli legati al Terzo Reich, molto rilievo è stato dato alla sua partecipazione alla guerra e al suo inquadramento nella Guardia Nazionale: si tratta tuttavia di una realtà minima nel contesto della resistenza nel più esteso Paese europeo, rispetto ai cui 42 milioni di abitanti l’estrema destra è assolutamente marginale e in cui l’ebreo russofono Volodymyr Zelensky è stato eletto con il 73% dei voti.

Nel 1991 arriva l’indipendenza da Mosca. Da allora le istituzioni e l’economia del Paese hanno fatto qualche passo avanti? Il passato sovietico è stato davvero superato?

Mentre i Paesi ‘sovietizzati’ solo dopo la seconda guerra mondiale, come quelli baltici, hanno conosciuto una transizione meno dolorosa, l’Ucraina, che dell’Urss faceva parte dal 1922, ha sperimentato difficoltà molto simili a quelle delle altre repubbliche dell’unione. Tuttavia, a differenza di queste non si è affidata a un presidente autocrate e dal 1991 ha sempre cercato un’alternanza di tipo democratico, con un’accelerazione a partire dalla rivoluzione arancione del 2004 e nonostante le forti ingerenze russe. Questo pur con tutte le difficoltà nel creare da zero un’economia di mercato, come mostra il fenomeno degli oligarchi.

Nel 1994 il Memorandum di Budapest sancisce la cessione a Mosca delle armi nucleari stanziate in Ucraina, in cambio di garanzie sulla sua "sicurezza, indipendenza e integrità territoriale" da parte di Russia, Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina. Che negli anni successivi Mosca abbia tradito Kiev appare evidente. Possiamo dire lo stesso dell’Occidente?

Senz’altro il Memorandum, non ponendosi come vero trattato, non ha scatenato le auspicabili reazioni difensive europee dopo la violazione dei confini ucraini nel 2014. È paradossale che si sia chiesto all’Ucraina di dismettere l’arsenale nucleare per poi abbandonarla a se stessa.

Dopo le proteste dell’Euromaidan (2013-14), l’annessione della Crimea e la guerra in Donbass, c’è chi spiega le mosse di Putin come una risposta all’accerchiamento della Russia da parte di Bruxelles e Washington. Si citano anche rassicurazioni americane a Mikhail Gorbacev circa i confini della Nato. Si tratta di una lettura storicamente solida?

Dopo la disintegrazione dell’Urss, Mosca non aveva strumenti né peso politico per contrastare le iniziative americane, che però diventarono solo in seguito motivo di conflitto, mentre il modello europeo e occidentale veniva invocato dagli stessi popoli dell’Est europeo. Temi di scontro furono l’allargamento Nato a Est e la costruzione di un’architettura di sicurezza europea. Secondo la versione ufficiale di Mosca, la Nato avrebbe promesso che non si sarebbe spinta di un centimetro oltre i confini dell’allora Germania Ovest. Gli storici sono concordi nel notare che in quei negoziati si parlava esclusivamente della questione tedesca, mentre va ricordato che certe rassicurazioni informali – sulle quali vi sono visioni discordanti – vennero offerte a uno Stato che poco più di un anno dopo sarebbe scomparso insieme al Patto di Varsavia, col risultato che l’Est corse – volontariamente – a rifugiarsi sotto l’ombrello della Nato. La tesi per cui quanto sta accadendo costituirebbe una reazione comprensibile e meccanica all’allargamento occidentale è dunque fragile.

Però c’è chi ritiene che l’Euromaidan sia stato un golpe degli Usa.

Io credo che l’Euromaidan sia nato da uno slancio popolare genuino, lo stesso visto con la rivoluzione arancione. Si possono poi senz’altro ipotizzare influenze europee e americane – anche solo nella promessa spesso disattesa di aiuto e apertura –, ma il cuore della questione è che sono gli ucraini stessi ad ambire, come altri esclusi, al modello occidentale ed europeo.

Dopo il 2014, l’allora presidente Petro Poroshenko ha lanciato diverse operazioni belliche per riprendersi le repubbliche separatiste del Donbass. Gli accordi di Minsk che avrebbero dovuto ‘risolvere’ il conflitto sono stati violati da Ucraina e Russia. Come sono trascorsi questi ultimi otto anni?

Il contenzioso si è trascinato nel Donbass, con vittime su entrambi i fronti e soprattutto tra i civili. L’Ucraina ha reagito alla pressione costante sulla sua integrità, già violata dall’annessione della Crimea. Le repubbliche separatiste – che non rappresentano tutta la regione né tutta la popolazione – sono state trattate come entità paraterroriste, come è comprensibile considerando il tipo di forze coinvolte. La rottura di un pur fragile equilibrio ci porta fino a oggi.

Con l’invasione iniziata il 24 febbraio come guerra lampo. Cosa auspicava Putin, e cosa gli ha detto la realtà?

Mosca riteneva di poter sostituire il governo con una spallata coadiuvata da una parte dell’esercito ucraino, trovando sostegno nella popolazione. Il calcolo si è rivelato evidentemente sbagliato: il governo Zelensky si è dimostrato solido e il Paese ha dimostrato di volere resistere.

Lei conclude il suo saggio ricordando che "lo storico non è un veggente". D’accordo, ma quali sono i suoi auspici per ritrovare la pace?

Bisogna ricordarsi che di mezzo c’è il popolo ucraino: devono poter essere loro a negoziare, invece di essere ancora una volta la pedina d’un gioco tra grandi potenze. Ciò richiede un consistente passo indietro anche da parte della Russia, che però oggi non sembra concretizzarsi. La questione è complicata da un’asimmetria nella percezione della guerra, che per gli ucraini significa morte e distruzione, mentre per molti russi è quasi un conflitto virtuale per l’affermazione della propria grandezza.

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