Estero

Bruxelles, al via il maxi-processo sugli attentati del 2016

Alla sbarra ci saranno 10 imputati. Negli attacchi morirono 32 persone e ci furono oltre 300 feriti

Bandiera a mezz’asta
(Keystone)

Lunedì 5 dicembre si apre a Bruxelles il maxi-processo contro i presunti responsabili degli attacchi terroristici del marzo 2016, una giornata di violenza mai vista nella capitale belga dai tempi della Seconda Guerra mondiale che costò la vita a 32 persone e causò oltre 300 feriti.

Ora la verità giudiziaria dovrà sostituirsi a quella giornalistica, confermando una volta per tutte le responsabilità degli aguzzini, le disgrazie delle vittime e, forse, anche le pecche delle forze di polizia in quello che probabilmente sarà un esercizio di catarsi collettiva senza precedenti per la nazione.

Alla sbarra siedono dieci imputati (uno di loro, Oussama Atar-Oussama Atar, sarà giudicato in absentia) e molti di loro sono già stati condannati per gli attentati a Parigi del 2015 in cui morirono 130 persone. La cellula di Molenbeek, dal nome del quartiere di Bruxelles in cui era basata, ha infatti progettato entrambi gli attacchi ed era legata allo Stato Islamico.

Gli investigatori credono che le indagini, con i vari raid della polizia, abbiano accelerato gli attentati di Bruxelles del 22 marzo: alle 7:58 del mattino le prime due esplosioni nell’area check-in dell’aeroporto di Zaventem, alle 9:11 quella nella metropolitana presso la stazione di Maalbeek, a un passo dalle istituzioni europee. Osama Krayem, uno degli imputati, sarebbe dovuto essere il secondo kamikaze di questa operazione ma si tirò indietro all’ultimo minuto mentre gli altri tre attentatori sono rimasti invece uccisi dallo scoppio delle bombe.

Le 32 vittime appartenevano a 13 nazionalità diverse, testimonianza dell’internazionalità della capitale belga. I parenti dei caduti si mischieranno dunque ai sopravvissuti agli attentati nella ex sede della Nato, dove si terrà il processo (l’unico edificio abbastanza grande e adatto a ospitare i lavori). Le loro storie compongono un mosaico della sofferenza e mostrano bene come questa tragedia abbia avuto un impatto pesantissimo anche su chi s’è l’è cavata a volte senza un graffio.

Christian De Coninck, ad esempio. Ora 62enne, fu uno dei primi poliziotti a intervenire nella stazione di Maalbeek, dove fu testimone della carneficina, con corpi straziati ovunque. Un anno dopo a De Coninck fu diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico, il suo comportamento si fece sempre più aggressivo e, dopo aver consultato uno psichiatra, lasciò la polizia.

Philippe Vandenberghe stava invece lavorando nell’area del personale dell’aeroporto Zaventem quando i due attentatori hanno fatto esplodere i loro ordigni nel terminal. Il tecnico informatico, all’epoca 51enne, aveva un certificato di primo soccorso e si è subito messo a prestare aiuto. Vandenberghe lavorò per un’ora, spingendo i carrelli dei bagagli intrisi di sangue a servire da barelle per trasferire i morti e i moribondi al posto di primo soccorso. Alla fine un collega lo riportò a casa "in stato di shock". Anche lui fu divorato dallo stress post-traumatico. "La mia vita è stata completamente distrutta, ho perso i miei amici, i miei hobby, il mio lavoro", racconta Vandenberghe.

L’onda lunga degli attentati è arrivata sino ai nostri giorni. Lo scorso ottobre, infatti, una ragazza belga di 23 anni, originaria di Kontich, ha deciso di sottoporsi all’eutanasia a causa delle "sofferenze psicologiche intollerabili" a cui era ormai sottoposta. Il giorno degli attacchi l’allora 17enne era in fila all’aeroporto di Bruxelles per prendere parte alla gita scolastica a Roma: sei anni dopo, una vita ancora davanti, l’orrore patito era ancora troppo forte da sopportare.

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