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Un’America sull’orlo di una crisi di nervi

Reportage dagli Stati Uniti che oggi votano per le elezioni di metà mandato, tra candidati impresentabili, proiettili e portafogli che friggono

(Keystone)

Accendo la tv: c’è un portafoglio che frigge in un olio nero, dentro una padella nera, in una cucina buia. Quel poco che si intravede del cuoco è abbastanza da convincervi non solo a saltare il pasto, ma anche a scappare da quella cucina. Quando mi giro verso il comodino per controllare che nessuno mi stia friggendo il portafoglio, irrompe una voce fuori campo: "È così che il governo e i Democratici spendono i tuoi soldi. Se vuoi salvare l’America, vota repubblicano". Esco dal motel per fare colazione, giro l’angolo e mi imbatto nella City of Grace, una chiesa di un culto che ha meno anni di me, una di quelle religioni fai-da-te dalla trinità sbilenca "padre-figlio-contoinbanca" che prosperano come non mai negli Stati Uniti, con l’immagine in bianco e nero dei due pastori che l’hanno creata, in posa sorridenti come in un book fotografico pronto da mandare a Hollywood. È mattino presto e la chiesa è chiusa: sulle scale c’è un uomo con la maglietta di Capitan America la cui colazione è a base di crack. Siamo a due passi dal centro di Phoenix, in Arizona, la quinta città più popolosa del Paese. La sera prima, in cerca di un posto sotto i cento dollari in cui passare la notte, ho scartato il Motel 6, in cui sono recentemente avvenute due sparatorie. Ma tenersi lontano dai proiettili vaganti è quasi impossibile. Poche ore dopo, a Mesa, una città di 500mila abitanti (definita appena qualche anno fa la "più conservatrice d’America") confinante con Phoenix, moriranno altre tre persone in due sparatorie distinte, una in casa, l’altra nel parcheggio di una pizzeria.

Sono negli Stati Uniti da poco più di venti giorni e, tranne in un paio di casi (e parliamo di villaggi di poche centinaia di abitanti), in ogni città o paese da cui sono passato c’è stata – nel solo 2022 – almeno una sparatoria che ha coinvolto e ferito o ucciso più persone. In questo clima, fatto di parole, gesti e armi fuori controllo, oggi l’America va alle urne per le elezioni di metà mandato: un voto intermedio – a due anni esatti dalla vittoria di Joe Biden e a due dalla proclamazione del prossimo presidente – che d’intermedio sembra non avere nulla. Tutto appare invece definitivo, come ogni cosa toccata o detta da Donald Trump, protagonista assoluto di queste elezioni in cui nemmeno è ufficialmente candidato. L’ex presidente sa che dalla portata del successo dei repubblicani e dalla sua strategia apocalittica, tanto da evocare persino la guerra civile, passa la strada per il ritorno alla Casa Bianca.

Vantaggio repubblicano

I sondaggi lo galvanizzano, premiando – come sempre, più di sempre – il partito all’opposizione. Storicamente le elezioni di metà mandato sono una trappola per il presidente in carica. Solo in tre casi, nel 1934 (F.D. Roosevelt), nel 1998 (Bill Clinton) e nel 2002 (George W. Bush), hanno guadagnato consensi e seggi alla Camera, i cui 435 membri verranno tutti rinnovati oggi. I democratici avevano una maggioranza di 220 a 212 (e tre seggi vacanti), ma incrociando i dati ci sarebbe l’83% di possibilità di un ribaltone: in pratica non si tratta di capire se perderanno il controllo della Camera, ma di quanto andranno sotto. Perfino presidenti amati e poi rivotati in massa al secondo mandato come Bill Clinton e Barack Obama hanno visto dissolversi rispettivamente 52 (nel 1994) e 63 deputati (2010). Trump stesso, quattro anni fa, ne perse quaranta. Diverso è il discorso in Senato, dove a oggi la maggioranza è a dir poco risicata (50 e 50, ma in caso di parità la vicepresidente Kamala Harris ha diritto di voto). Ma il passato e le coincidenze tendono la mano a un Biden in caduta libera (il suo gradimento è al 40%, uno dei più bassi di sempre): qui i tavoli rovesciati sono infatti più rari e in ballo ci sono solo 35 dei 100 seggi, per di più 21 di quei 35 sono dei repubblicani, che hanno quindi – almeno aritmeticamente – più da perdere che da guadagnarci. I sondaggi, fino a pochi giorni fa, davano i due partiti in sostanziale parità, ma uno dei siti più autorevoli, fivethirtyeight.com, ieri ha simulato il voto per 40mila volte: nel 54 per cento dei casi a spuntarla sono stati i repubblicani.

Aggrappati a Obama

Una simile débâcle lascerebbe poche speranze a una ricandidatura di Biden nel 2024 (e tutto sommato, dicono i commentatori più maligni, o forse più avveduti, una parte dei democratici non sarebbe così dispiaciuta). Il partito del presidente si aggrappa intanto a un altro presidente, Obama, spedito in ogni angolo del Paese come un amuleto a raccattare consensi: è andato in Arizona a dire a mezza bocca che potrebbe rilevare i Phoenix Suns, la squadra di basket locale, da lì è corso in Nevada, Wisconsin e infine in Pennsylvania, dove potrebbero decidersi i destini del Congresso.

La battaglia sull’aborto

L’altro grande aiuto a Biden arriva dalla battaglia sull’aborto, che si è riaccesa dopo l’annullamento della sentenza dello storico caso "Roe vs Wade" del 1973 da parte della Corte Suprema, nel giugno scorso. I repubblicani, aizzati dalla cosiddetta area "pro-life" – rumorosa e danarosa – sostengono la decisione, ma la maggioranza della popolazione (e delle donne in primis) non vuole che il diritto all’aborto venga toccato: Biden e i democratici si sono schierati in modo netto e su questo insistono nella speranza che cavalcare un tema forte dia i suoi frutti. Strategia che potrebbe rivelarsi un boomerang, perché tacere dell’inflazione che sta moltiplicando il numero di poveri e dare risposte evasive sul riscaldamento globale non sembra sia stato apprezzato dall’elettorato. La valanga rossa, colore storicamente associato ai repubblicani, potrebbe quindi inghiottire l’intero Congresso. Come arrivarci o arrivarci con stile non sembra un problema da porsi per l’ala più conservatrice, che siano candidati o elettori: in Virginia, la repubblicana in corsa per la Camera Yesli Vega (che si presenta come "madre, poliziotta e moglie di un militare"), fervente antiabortista, è arrivata a dire che "in caso di stupro non si resta incinta", quindi l’aborto andrebbe negato senza troppi distinguo. In Georgia, la gloria locale del football e aspirante senatore Herschel Walker (dodici stagioni nella Nfl), uno di quelli tutti "Dio, patria e famiglia", vicinissimo a Trump, è stato accusato da due donne di averle convinte – tra dollari e minacce velate – ad abortire. In pubblico, però, sostiene che l’aborto equivale a un omicidio e che non vada praticato nemmeno nel caso in cui ci sia pericolo di vita per la madre. Il Washington Post è andato a intervistare i suoi elettori, sempre convinti di sostenerlo con un’alzata di spalle e con il ritornello "tutti fanno degli errori".

Iceberg estremista

Vega e Walker sono solo la punta dell’iceberg di un estremismo diffuso: si calcola infatti che a livello nazionale e statale (si vota anche per 39 governatori) siano ben 291 i candidati repubblicani con posizioni estreme, convinti che la vittoria di Biden sia illegale e ottenuta con una serie di frodi. Le pubblicità dei democratici che hanno battuto su questo tasto non hanno avuto l’effetto sperato, anzi, hanno fatto in modo di far conoscere ai complottisti più pigri, quelli che non vanno oltre alla tv per informarsi, personaggi che gli corrispondono, facendo quasi un favore agli avversari. La base repubblicana storica, molto più conservatrice sui temi economici che su quelli sociali, si è già smarcata da Trump e dalle sue teorie e pratiche del caos: ovvero, alzare un grosso polverone e poi fare la conta di ciò che resta. In Pennsylvania si è arrivati al body shaming elettorale, mostrando con insistenza una foto mal riuscita della candidata democratica Susan Wild, con il sottotesto "affidereste il Paese a una donna così brutta?".

Tra ferocia e stanchezza

L’immagine più brutta è però quella dell’America stessa, che appare stanca e senza idee tra i democratici, feroce e spietata tra i conservatori, specialmente quelli che fanno più presa. Un popolo sull’orlo di una crisi di nervi, la cui gentilezza ostentata del primo approccio crolla davanti a una banale incomprensione: receptionist e commessi barricati dietro grate, guardie private dappertutto, carte di credito sequestrate all’ingresso di bar e ristoranti finché non si paga il conto, vendite di armi cresciute a dismisura dalla pandemia in poi, lunghe file di homeless senza speranza e la sensazione di essere in pericolo sempre, non solo nelle periferie, in alcuni casi off-limits, ma anche nel centro di Los Angeles o San Francisco. Lasciare quella giungla d’asfalto, atterrare a Washington, saltarne a piè pari i bassifondi, passeggiare nell’immacolato Lincoln Park e dormire in una di quelle case borghesi da telefilm con i pannelli solari sul tetto, il vialetto pieno di foglie colorate da rastrellare e gli addobbi di Halloween fuori tempo massimo segna tutta la distanza tra due mondi costretti a vivere come uno solo e mettere il voto nella stessa urna. In diversi cortili del quartiere, come se fosse qualcosa di organizzato, spuntano come funghi cartelli con frasi di Martin Luther King. Una, tra tante, dice: "L’amore è l’unica forza capace di trasformare il nemico in un amico". Anche questa è America, a una manciata di minuti da Capitol Hill. Eppure sembra la più lontana di tutte.

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