Estero

Afghanistan: un anno coi mullah

Ritorno a Kabul a dodici mesi dalla sua caduta nelle mani dei talebani. È qui che gli Usa hanno ucciso al-Zawahiri

La vita continua tra oppressione e miseria
(Keystone)

I talebani avevano fissato all’11 settembre del 2021 la data dell’insediamento del loro governo. Una palese provocazione, un truce sberleffo politico che aveva siglato la fine del ventennio americano e l’inizio di una nuova era, molto simile nelle intenzioni a quella apertasi nel 1996 e interrotta cinque anni più tardi dai bombardamenti americani. Un anno dopo, Joe Biden sembra aver voluto prendersi una rivincita altamente simbolica, celebrando con due missili l’anniversario della presa del potere degli "studenti coranici". Nella sala dei trofei della Casa Bianca, accanto a quelli di Osama bin Laden (Barack Obama) e del capo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi (Donald Trump), il presidente può ora esibire il volto del 71enne egiziano Ayman al-Zawahiri e rivendicare il merito della sua eliminazione.

Il "most wanted" al mondo, forse l’uomo che più di tutti ha impersonato la storia recente dell’islamismo radicale e del terrorismo jihadista, è stato ucciso (pare) da due razzi aria-terra, senza carica esplosiva ma con delle lame che si aprono in prossimità del bersaglio, mentre si trovava sul balcone di uno stabile abitativo in pieno centro di Kabul, nel quartiere di Sharpur dove vi è un’alta concentrazione di dignitari del regime. Il ricorso a missili del tipo R9x "Ninja" (già utilizzati in Siria contro l’Isis) mirava apparentemente a non creare quei danni collaterali che hanno in parte contribuito ad alienare presso parte della popolazione non poche simpatie per la presenza militare statunitense. Operazione che secondo diverse fonti è stato preparata a lungo (due mesi) e gestita dalla Cia e non dal Pentagono (che era contrario al ritiro delle truppe dall’Afghanistan).

Teorico del terrore

Al-Zawahiri è innanzitutto il fondatore di al-Qaida assieme a Osama bin Laden: l’organizzazione terroristica nacque proprio in Afghanistan durante l’occupazione sovietica. La lotta agli infedeli che avevano osato metter piede in terra musulmana (Dar al-Islam) aveva attirato numerosi jihadisti dal mondo arabo. Influenzato spiritualmente da Sayyed Qutb, il leader dei Fratelli Musulmani giustiziato nel 1966 dal presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser, al-Zawahiri è stato il teorico di riferimento del jihad globale: ritroviamo il suo nome dietro innumerevoli atti di terrore, da quello che uccise il successore di Nasser Anwar Sadat nel 1981 al massacro all’ambasciata egiziana di Islamabad nel 1995 (16 morti), dagli attentati antiamericani in Somalia, Kenya e Tanzania (oltre 200 morti) fino agli attacchi contro il Pentagono e il World Trade Center del 2001. L’"assassino implacabile", secondo l’epiteto di Joe Biden, non potrà più ideare azioni di terrore, ma non pochi analisti ritengono che in realtà negli ultimi anni avesse assunto un ruolo marginale.

La cifra politica più significativa è da leggere nel fatto che fosse ospitato a Kabul, malgrado gli impegni che i talebani si erano assunti con gli accordi di Doha del 2020: gli americani lasciavano libero il campo alle forze in guerra in Afghanistan, in cambio i loro nemici si impegnavano a non più ospitare e sostenere mujaheddin della galassia terroristica, in particolare i tradizionali alleati di al-Qaida. Che al-Zawahiri avesse alleati nel regime teocratico non è un mistero e non è probabilmente un caso che vivesse proprio nell’appartamento di un collaboratore di Serajuddin Haqqani, ministro degli Interni e capo dell’omonima rete terroristica. La lettura di diversi analisti e testate (dal New York Times ad Affari Internazionali) e del ministro degli Esteri americano Antony Blinken avvalorano la tesi del tradimento degli accordi di Doha.

Rimane da capire, ma forse mai lo sapremo, se non vi sia un’altra lettura possibile, speculare, antitetica: al-Zawahiri consegnato a Washington in cambio di una futura normalizzazione dei rapporti economici, politici, diplomatici (nessuno Stato al momento riconosce la legittimità del governo talebano). Anche perché il Paese, in mano a una classe dirigente a digiuno di politica e di gestione amministrativa, finanziaria, sociale, educativa, ma imbottita di retorica religiosa, è esangue.

Un anno più tardi: tra derive e rimpianti

Non sono in pochi a confidarci, a Kabul e in provincia, che prima "si stava meglio". Molto meglio. L’Afghanistan beneficia indubbiamente oggi di maggior sicurezza: dopo 43 anni di guerra (iniziata con l’invasione sovietica del 1979 e che ha conosciuto i momenti più devastanti nel conflitto tra diverse fazioni di mujaheddin tra il 1992 e il 1996) le armi più o meno tacciono, anche semplicemente perché la guerriglia talebana che seminava il terrore a suon di bombe e attentati è al potere. Vi sono ancora regolari attacchi a moschee sciite, scuole e mercati attribuiti dal governo all’Isis (un migliaio di morti in gran parte registrati nella provincia del Khorasan), ma nulla in confronto a quanto la popolazione era costretta a vivere prima del 15 agosto 2021. La maggior sicurezza è tuttavia l’unico aspetto in cui il Paese ha conosciuto un progresso.

L’economia, che dipendeva nella misura del 75% dagli aiuti esteri, è allo stremo. La Banca Mondiale ha tagliato gran parte dei due miliardi di dollari che transitavano dall’Afghanistan Reconstruction Trust Fund, necessari a pagare operatori sanitari, docenti e altri funzionari. La comunità finanziaria ha revocato le credenziali che consentivano alla banca centrale afghana di interagire col sistema bancario internazionale, mentre gli Usa hanno congelato i sette miliardi depositati alla Federal Reserve dalla stessa banca centrale.

Nei mercati di Kabul e anche in provincia in realtà si trova di tutto: carne, frutta, cereali, vestiti. Ma il potere d’acquisto è crollato e l’inflazione è esplosa. Oltre un milione di persone ha perso il lavoro sia a causa della chiusura di ambasciate, organizzazioni internazionali, Ong, sia per i massicci licenziamenti messi in atto dall’Emirato islamico contro persone che si erano compromesse con la Repubblica democratica. Come Ahmed, che abbiamo incontrato in un quartiere misero della capitale avvolto dai miasmi insopportabili delle fogne a cielo aperto: sei figli, fino a un anno fa faceva le pulizie degli uffici governativi, è stato licenziato e la casa gli è crollata qualche settimana fa in seguito a un forte temporale. Con la moglie e i bimbi è costretto a vivere in una stanza; per i servizi igienici deve rivolgersi ai vicini.

Futuro cupo per tanti, tantissimi: nella famiglia di Habiba, una ragazzina di etnia hazara rimasta ferita poco più di un anno fa in un attentato alla sua scuola (in cui persero la vita quasi 100 sue compagne), nessuno lavora più. Il padre è gravemente malato, la sorella maggiore paga lo scotto di essere donna, i tre fratelli lavoravano per la polizia e per un’organizzazione non governativa. Ora passano le giornate a cercare di raggranellare qualche afghani scaricando e caricando merce dai camion nei mercati e depositi della capitale.

Guerra alle donne

Il rimpianto di un passato fatto di difficoltà, ma anche di speranze e sogni è forte e quasi unanime soprattutto tra le donne, ridotte oggi in situazione limitrofa alla schiavitù. La stessa Habiba non ha più accesso al sistema scolastico dove eccelleva: ha 13 anni e le porte della scuola secondaria (corrispondente alle scuole medie e medie-superiori) le sono sbarrate. Nessuna ragazza può frequentare le scuole se ha più di dodici anni, per decisione (che suscita qualche perplessità pure tra i talebani) del leader supremo Halibatullah Akhunzada.

La situazione scolastica appare tanto drammatica quanto paradossale, e riflette l’ossessione del regime per la segregazione sessuale. Le bimbe possono frequentare la scuola elementare, poi alla pubertà devono stare chiuse in casa. In teoria potrebbero, accompagnate da marito, padre o fratello, seguire corsi universitari, ma solo in aule separate dai maschi e con docenti donne. Quella contro le donne è una guerra a tutto campo: obbligo di coprirsi il volto (con il burqa che gli afghani chiamano tchadri, o il niqab), di uscire e viaggiare unicamente se accompagnate da un uomo, divieto professionale in innumerevoli settori, ristoranti, parchi, zoo, aree di svago. Una lunga lista di soprusi, un ritorno al passato, anche se con modalità meno drastiche e spietate del quinquennio 1996-2001.

Hasimi Nasiri, coraggiosa attivista, ci confida: "Tutto si è fermato il 15 agosto dello scorso anno. Noi donne abbiamo perso vent’anni di progressi, nell’educazione, nel lavoro, nelle famiglie: tutto è andato perso". Un grido disperato per una realtà che colpisce con brutalità: le donne sono diventate invisibili, scomparse o quasi. C’è chi resiste ad esempio mostrando il volto, ma rischia poi di pagare un prezzo elevato per la sfrontatezza.

Oggi come ieri

Non è un caso che i leader di oggi siano gli stessi di ieri, anche se una nuova generazione di talebani e l’evoluzione tecnologica rendono la dittatura religiosa più porosa. Così se la musica, i film, le serie tv sono vietati, abbiamo visto numerosi giovani, donne e uomini, scaricarli sullo smartphone o acquistarli al mercato nero nelle innumerevoli bancarelle lungo le strade di Kabul. Indubbiamente i nuovi padroni del Paese tengono a curare la propria immagine e i giornalisti stranieri hanno importanti margini di libertà (seppur con la messa in guardia al momento dell’accredito: "A condizione di rispettare la Sharia e di fornire le fonti delle informazioni che possono danneggiare il governo"). Ma vi è una realtà nascosta, atroce e diffusa, che in particolare le organizzazioni per i diritti umani (come l’Unama, l’agenzia dell’Onu per l’Afghanistan, Amnesty International o Human Rights Watch) sono in grado di documentare: sparizioni, detenzioni arbitrarie, torture.

In realtà, sottolinea il professor Michael Barry, uno dei maggiori conoscitori della storia e della cultura afghane, l’ideologia dei talebani si apparenta a quella fascista: la loro etnia pashtun rivendica una supremazia razziale che si aggiunge a quella di genere e di credo religioso. Ficcata nella memoria degli hazara (sciiti) i massacri perpetrati un quarto di secolo fa, quando a Mazar e Sharif, nel Nord, in pratica tutti gli appartenenti a questa etnia furono trucidati.

Le radici dell’estremismo talebano

I pashtun come razza superiore. Non è un caso che la leadership del Paese, anche nei periodi di democrazia e di uno Stato più o meno secolare, sia sempre stata nelle loro mani. Se il fondamentalismo estremista di al-Qaida è di matrice araba e si iscrive nell’ortodossia della corrente hanbalita del sunnismo (la stessa alla quale attinge il wahabismo saudita) che si basa sul comportamento e pensiero immutabile delle origini dell’Islam (il salafismo), i talebani affondano il loro credo (pure sunnita, ma legato alla scuola Deobandi, che aveva promosso l’emancipazione dai britannici nel subcontinente indiano) in un sincretismo con le forme tradizionali più reazionarie dell’islam e dell’induismo (ciò che spiega in buona parte il loro disprezzo per le donne) dove i "sadat" sostituiscono i brahmani come presunti discendenti del profeta e dove una concezione classista (caste) regola l’ordine sociale (etnie superiori e inferiori).

A differenza degli amici di al-Qaida o dei nemici dello Stato Islamico (Isis), il movimento talebano è intrinsecamente nazionalista. Il suo non è un jihad da esportazione. Gli infedeli "kafir" li combatte unicamente nel territorio nazionale. L’emirato rimane confinato nel territorio afghano. Questo era l’impegno degli accordi di Doha. E se vengono rispettati, il futuro del Paese non sarà sicuramente più oggetto di grande interesse internazionale.

D’altra parte neanche agli americani il futuro del Paese ha mai suscitato interesse. La "tomba degli imperi", se non tracima per terrorismo interposto, con le sue sopraffazioni e violazioni dei diritti umani potrà così sparire dal proscenio della nostra storia.

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