Estero

La Cina è diversa, che ci piaccia o no

Mercoledì a Lugano un dibattito con Giada Messetti e Gabriele Battaglia, per ripensare il Dragone al di là di facili stereotipi

(Keystone)
25 luglio 2022
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«Con la Cina bisognerebbe cambiare atteggiamento: smettere di guardarla attraverso le nostre lenti affermando a priori la nostra superiorità, e cominciare a fare i conti con l’idea che per la prima volta dopo secoli abbiamo di fronte qualcuno di diverso da noi che non è in una posizione di debolezza», dice Giada Messetti. «Sapremo mai accettare qualcuno anche nelle sue differenze, senza pretendere che il nostro debba essere il modello dominante, senza ridurre tutto alla nostra narrazione stereotipata?», aggiunge subito Gabriele Battaglia. Messetti e Battaglia sono due giornalisti italiani tra i più esperti di questioni cinesi, in Cina hanno vissuto a lungo, ne dominano la lingua e ne studiano da decenni sfumature ed evoluzioni. Mercoledì alle 18 saranno a Lugano – presso la Punta Foce del Parco Ciani – per parlare delle loro opere più recenti. Ne approfitteremo per cercare di uscire un po’ dai cliché che spesso dominano il dibattito sul Dragone.

Intanto, com’è essere giornalisti occidentali in Cina?

Messetti: Quando ci ho abitato io, dal 2005 al 2011, ero completamente libera di fare il mio lavoro. La Cina si stava aprendo al mondo, aveva bisogno e voglia di presentarsi ai media occidentali. Poi ci sono andata molte volte prima della pandemia. Ora però mi chiedo: che Paese troverò al mio ritorno? Al di là dei lockdown dovuti al Covid, l’impressione è quella di una crescente chiusura, un ripiegamento che forse lo stesso Occidente tende ad agevolare, col suo modo semplicistico di raccontare la Cina.

Battaglia: Concordo. Io in Cina sono arrivato proprio nel 2011 e sono rimasto fino allo scorso aprile. Negli ultimi tempi c’è stata la chiusura dovuta al Covid, ma anche qualcosa di più profondo: la volontà di reimpossessarsi della propria narrazione, affidandosi ai propri media anche all’estero. Finora la Cina è stata rappresentata, spesso in maniera distorta, da quei quattro o cinque media anglosassoni che poi tutti gli altri scopiazzano. Ora, passatemi l’espressione, è come se si fossero rotti le palle. Questo però ha limitato molto la nostra libertà di manovra.

Una chiusura che conferma le velleità autoritarie di Pechino. O no?

Messetti: Dal punto di vista occidentale, sì. Da quello cinese, però, a spiegare questi cambiamenti è anche la volontà di contestare l’egemonia dei Paesi che hanno sempre scritto le regole per tutto il mondo, presentandosi come suoi ‘poliziotti’ e pretendendo di sottomettere i cinesi e molti altri popoli come inferiori. In più, se una volta la Cina si apriva all’Occidente perché costituiva un certo modello di benessere e status, ora non è più così. Si tratta di un cambio di prospettiva epocale.

Le misure draconiane prese per combattere il Covid – come di recente a Shanghai – non rischiano però di indebolire il governo cinese anche agli occhi dei suoi cittadini?

Battaglia: È possibile che certe misure abbiano creato un certo malcontento, specie presso quel ceto medio urbano che come a Shanghai è dovuto passare in un attimo dall’e-commerce a scambiarsi patate con pannolini sul pianerottolo di casa. Però bisogna sempre ricordarsi che ci sono tante Cine: per molti appartenenti ai ceti popolari, la pandemia è stata un momento di mobilitazione di massa.

A far temere derive dittatoriali è anche l’ascesa del presidente Xi Jinping: il ‘nuovo Mao’?

Battaglia: Mao era un intellettuale e una figura a suo modo unica. Xi, al contrario, è una creazione del partito in tutto e per tutto, che non si può ridurre all’idea occidentale di dittatore. È il partito che ha costruito il personaggio, funzionale a veicolare l’immagine di decisionismo soprattutto nella lotta alla corruzione e alle disuguaglianze.

Messetti: Potremmo dire che il partito è l’ultima dinastia e Xi è il suo più recente imperatore, anche qui con una precisazione: il ‘mandato del cielo’ all’imperatore non implica la più supina obbedienza da parte del popolo, può essere revocato se, ad esempio in termini di benessere, non porta risultati. La storia della Cina è costellata di rivoluzioni e dinastie rovesciate. Questo spiega anche gli sforzi del Partito per rispondere alle esigenze della popolazione, per esempio con le recenti misure anti-inquinamento.

Però il sistema non è una democrazia liberale – come quella che pensavamo sarebbe sorta insieme alla classe media – e ora minaccia col suo modello e le sue incursioni il sistema globale a trazione americana. Lo vediamo coi megainvestimenti della Via della Seta.

Messetti: Ma la stessa pretesa di un’evoluzione in senso occidentale è un sintomo del nostro sciovinismo. La Cina esce da se stessa per far correre le merci, per consolidare il suo modello economico, non per esportare il modello cinese. In questo chiede però di essere riconosciuta per quello che è: la seconda potenza economica mondiale candidata a diventare la prima, un Paese che ha sollevato 700 milioni di persone dalla povertà in 40 anni e non accetta che le imponiamo la nostra idea di multilateralismo, omologante e ignara di tutte le diversità.

Battaglia: Con una battuta, potremmo dire che se gli americani sono così razzisti da pensare che tutti gli altri debbano imparare da loro, i cinesi lo sono ancora di più: pensano che nessuno sia capace di imparare da loro, dunque non pretendono di impartire lezioni. Scherzi a parte, l’espansione degli interessi cinesi è orientata al massimo pragmatismo, sempre nella convinzione che sarà poi il benessere a risolvere i problemi, ma senza l’atteggiamento tipico del colonialismo per come lo conosciamo, quello che si autoinveste di una missione evangelica. Quello, semmai, lo vedo all’interno della Cina stessa, in particolare con la minoranza uigura dello Xinjiang, trattata come infantile e da rieducare, la cui cultura si pretende di ridurre a folclore.

Proprio i campi di rieducazione per quella minoranza musulmana, insieme a fronti come quelli di Taiwan e Hong Kong, solleva un punto cruciale: il rispetto dei diritti umani. Possiamo davvero rinunciare a impugnare questi valori così importanti per la nostra identità?

Messetti: No, però dobbiamo anche capire che se davvero quei diritti ci stanno a cuore, se vogliamo evitare che vengano strumentalizzati da entrambe le parti per servire i diversi interessi, allora non ha senso agire come abbiamo fatto finora: la battaglia ideologica all’insegna dello scontro di civiltà e l’accusa ai cinesi di inferiorità su questo fronte non solo non risolvono nulla, ma rischiano di spingere i cinesi a irrigidirsi e inasprire ulteriormente la repressione. Intanto la Cina stessa risponde con la sua propaganda, rinfacciando a Paesi come gli Usa il razzismo sistemico, i moti di Capitol Hill, il disastro in Afghanistan e così via. Ma così non c’è, né può esserci, vero dialogo.

Battaglia: È anche essenziale, aggiungo solo, notare che i diritti umani non possono essere usati come arma politica da chi li ha sistematicamente violati.

La guerra commerciale e diplomatica tra Washington e Pechino rischia di trovare un campo di battaglia anche in Ucraina?

Messetti: La Cina si muove lentamente e pragmaticamente anche su questo fronte, difende la posizione di Mosca in chiave anti-Nato e condanna le sanzioni, ma le rispetta per non trovarsi sbarrati i mercati mondiali. E non è certo contenta di un conflitto che le chiude l’ingresso europeo della Via della Seta. Intanto però si impegna altrove, per farsi riconoscere dal Sud del mondo come nuovo garante di stabilità, forse con più credibilità dei vecchi Stati coloniali.

Battaglia: Spesso Mosca e Pechino si pestano i piedi in Asia centrale, ma il loro matrimonio d’interesse durerà finché si sentiranno minacciati dall’alleanza atlantica. Non a caso l’Iniziativa di sicurezza globale proposta dalla Cina asserisce due principi: l’inviolabilità della sovranità nazionale – un modo per stigmatizzare almeno implicitamente l’invasione dell’Ucraina – e d’altro canto l’indivisibilità della sicurezza globale. Come dire che se l’accresciuta sicurezza dell’Ucraina e dell’Occidente passa da un allargamento Nato percepito come una minaccia per Russia e Cina, è legittimo contrastarlo.

IN LIBRERIA

Due vademecum
e un reportage

‘La Cina è già qui. Perché è urgente capire come pensa il Dragone’ (Mondadori 2022) è l’ultimo saggio di Giada Messetti, sinologa e autrice di programmi di approfondimento per Rai3. Un’originale guida politica e culturale alla Cina, che può anche essere letta come completamento del precedente ‘Nella testa del Dragone. Identità e ambizioni della nuova Cina’ (Mondadori 2020).

Gabriele Battaglia, corrispondente Rsi dalla Cina e collaboratore di diverse testate internazionali, ha scritto invece ‘Massa per velocità. Un racconto dalla Cina profonda’ (Prospero 2021), affascinante reportage che all’osservazione sociale unisce il gusto per l’aneddoto e il diario di viaggio, facendoci scoprire anche angoli remoti del Paese.

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