Estero

Ucraina: Giulia Lami parla, Moni Ovadia straparla

Invitata a ChiassoLetteraria, la storica ci spiega la differenza tra la realtà e la propaganda sovietica (alla quale abbocca anche l’attore)

(Keystone)
12 maggio 2022
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Per invadere un Paese non bastano le truppe e le armi: serve anche una giustificazione ideologica che aiuti l’opinione pubblica a unire i puntini. Parole per giustificare le bombe. Nel caso ucraino, un pilastro fondamentale della propaganda russa è la rappresentazione di un’Ucraina nazista, bisognosa di liberazione da un governo criminale. Da dove nasce questa ‘narrazione’, e come si contrappone alla realtà dell’identità nazionale ucraina? Partiamo da qui con Giulia Lami, docente di Storia contemporanea d’Europa fra Est e Ovest e Storia dell’Europa orientale all’Università degli Studi di Milano, che oggi si confronterà a Chiasso con il reporter Nello Scavo e l’attore, musicista e autore Moni Ovadia (l’incontro si terrà alle 20.30 allo Spazio Officina nell’ambito di ChiassoLetteraria).

Come si è arrivati a parlare di nazismo ucraino?

L’identificazione col nazismo del governo di Kiev, per molti versi stupefacente, distorce alcuni elementi di realtà storica allo scopo di squalificare moralmente il Paese invaso. Durante i tormentati anni della Seconda guerra mondiale, a fronte della doppia invasione di Hitler e Stalin, la Galizia Orientale e il suo centro Leopoli – allora in Polonia – videro effettivamente nascere un fronte nazionalista e collaborazionista, che vedeva nell’alleanza con la Germania una possibilità di riscatto dalla sovietizzazione e di costruzione di un nucleo nazionale ucraino. Quell’illusione sarebbe tramontata rapidamente, ma avrebbe portato con sé la complicità dei nazionalisti – guidati dal leader Stepan Bandera – nella campagna di Russia e nell’Olocausto. Si tratta di un fenomeno storicamente e geograficamente circoscritto, che però già con Stalin divenne pretesto per reprimere qualsiasi richiesta di autonomia, qualsiasi riconoscimento della realtà culturale e linguistica ucraina. A distanza di un’ottantina d’anni, l’accusa di ‘banderismo’ è nuovamente impugnata da Mosca contro Kiev.

In effetti, però, vediamo alcuni ucraini esibire immagini di Bandera o addirittura – come nel caso del famigerato Battaglione Azov – svastiche, rune e altri simboli mutuati dall’iconografia nazista. Quanto dobbiamo preoccuparcene?

Si tratta di componenti nettamente minoritarie: il Battaglione Azov contava poche migliaia di militanti prima della guerra e i partiti nazionalisti al Parlamento di Kiev non superano il paio di punti percentuali. Non saprei dire quanti, tra chi ‘sventola’ l’immagine di Bandera, si riaggancino consapevolmente al nazismo più che a un generico risentimento antirusso. Certo, inserire il Battaglione nella Guardia nazionale e attenuare lo stigma associato al nazionalismo estremista – come fatto dagli ultimi due presidenti ucraini Petro Poroshenko e Volodymyr Zelensky – ha finito certamente per fare il gioco del Cremlino, ma definire per questo nazista il governo di Kiev è del tutto falso e strumentale. D’altra parte, quello che davvero muove il Cremlino è il rifiuto dell’avvicinamento dell’Ucraina all’Europa dopo l’Euromaidan, con la cacciata del presidente filorusso Viktor Yanukovic. È allora che è iniziato il conflitto ibrido, con l’invasione della Crimea e il sostegno alle repubbliche autoproclamatesi indipendenti di Donetsk e Lugansk.

C’è chi sostiene che la situazione si sarebbe normalizzata se Kiev avesse applicato gli accordi di pace di Minsk.

Accordi che però non sono stati applicati da nessuna delle due parti. Essi prevedevano d’altronde lo sgombero delle truppe dai territori occupati e apposite modifiche costituzionali. Sarebbero serviti pace e tempo, ma in assenza di un segnale di apertura da parte di Mosca la loro applicazione avrebbe dovuto somigliare molto all’accettazione di una pace punitiva.

Se quel che si racconta è che son tutti nazisti – il governo ucraino, ma anche la popolazione che lo sostiene secondo molte voci della propaganda russa –, fino a dove può davvero arrivare un ipotetico riconoscimento della nazione ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin?

In diversi saggi e discorsi – tra i quali quelli immediatamente precedenti l’invasione – Putin è stato molto chiaro nel riaffermare l’unità di Ucraina e Russia. Lo ha fatto incolpando Lenin di avere concesso il diritto costituzionale di secessione alle repubbliche sovietiche, e ricordando come quella ucraina sia nata da elementi dell’impero russo come il Donbass, la regione del Dnipro, le coste sul Mar Nero e il Mar d’Azov, oltre alle terre perse dall’Impero asburgico dopo la Prima guerra mondiale in Cecoslovacchia, Romania, Ungheria e Moldavia. Vista da questa prospettiva, l’Ucraina è squalificata a espressione geografica e a ex repubblica ingrata verso Mosca. È anche chiaro che certe accuse mettono implicitamente in crisi la legittimità di qualsiasi ex repubblica sovietica, nel momento in cui volesse rivendicare la sua autonomia dalla Russia: l’imperialismo sovranista di Putin le minaccia tutte, specie quelle con una componente russofona.

Nel frattempo, che fisionomia ha acquisito l’idea di nazione, di patria del popolo ucraino?

In generale, questa invasione conferma e consolida l’esistenza di un’identità nazionale il cui baricentro è un’idea di cittadinanza, un senso civico condiviso orientato alla democrazia, che trascende le molte componenti linguistiche e religiose. Questa idea di Ucraina incarna anche la speranza – resa più urgente dall’aggressione e rafforzatasi nonostante le molte difficoltà del periodo post-sovietico – in un futuro in cui le nuove generazioni possano conoscere libertà e sicurezza, possano vivere in un 21esimo secolo lontano da queste violenze che appaiono come una lunga, anacronistica coda di quello precedente. La resistenza intrapresa dagli ucraini – coraggiosa e capace di ricomporre le differenze etnico-linguistiche – non fa che confermare questo ideale, che nulla ha a che vedere con il nazismo. Il tutto in una nazione che già dall’Ottocento vede i suoi diritti negati dai grandi Stati multinazionali.

Insomma, la ‘percezione di sé’ degli ucraini e la rappresentazione che ne dà il Cremlino non potrebbero essere più diverse: come è possibile in queste condizioni arrivare alla pace?

Oltre all’ideologia e alla propaganda c’è sempre l’equilibrio delle forze in campo. Per questo credo che sia importante continuare a sostenere la resistenza ucraina, in modo che le trattative di pace possano davvero avere luogo. Questo non è possibile finché Putin continua a ritenersi abbastanza forte da non dover concedere nulla, e lo stesso Zelensky si trova in una posizione in cui la pace rischierebbe di essere ancora una volta punitiva. Questo squilibrio spiega anche perché tutti i tentativi di mediazione intercorsi finora – ad esempio quelli del presidente francese Emmanuel Macron e del Papa – siano falliti.

C’è però chi ritiene che gli ucraini stiano ormai combattendo una guerra per procura, in cui il vecchio contrasto tra Washington e Mosca torna a giocarsi sulla loro pelle.

Penso che si debba evitare di andare in quella direzione, così come occorre molta prudenza per evitare escalation, ma credo che come la guerra, neppure la pace si debba fare a spese degli ucraini. Per questo non si deve aver fretta. Soprattutto, non si deve abbandonare una resistenza che sono stati gli stessi ucraini a decidere e organizzare, rifiutando una resa che, oltre a privare il Paese della sua dignità, avrebbe enormemente alimentato le ambizioni di Putin sul piano internazionale.

Una delle domande che animerà l’incontro di Chiasso è però la seguente: ‘Può il pensiero nonviolento fronteggiare la brutalità dei cannoni?’

Si deve sempre garantire uno spazio alla nonviolenza e al dialogo. Sarebbe sventato non fare quanto è nelle possibilità di ciascun attore in questa crisi per esercitare la giusta pressione diplomatica. Per aprire un tavolo negoziale, però, è fondamentale che anche gli ucraini siano messi nelle condizioni di potervi davvero sedere, senza vedersi costretti a una resa umiliante. Questo dipende anche dalla situazione sul campo, e dunque dall’aiuto che sapremo dare all’Ucraina.

AL DIBATTITO

Il ‘noncelodicono’ di Moni Ovadia

"Trafficando nella rete ho scoperto questo". Quando siamo al bancone d’un bar e qualcuno esordisce in questo modo, sappiamo già cosa fare: darcela a gambe per schivare l’ennesima filippica complottista, che si parli di vaccini, guerra o forma della Terra. Impresa più difficile se ci si trova seduti a teatro e sul palco c’è un altro degli invitati al dibattito di ChiassoLetteraria, il venerando Moni Ovadia. Il quale è partito proprio così la sera del 2 maggio, in occasione della serata ‘Pace proibita’ organizzata da Michele Santoro a Roma (con diffusione su ByoBlu, sedicente ‘tivù dei cittadini’, costola della ‘controinformazione’ grillina, testata multimediale cara a No Vax e affini, che ha presentato lo spettacolo come un’occasione per "alzare il velo dell’ipocrisia dal racconto del conflitto in Ucraina per fermare un’altra narrazione unica, l’ennesima").

"Trafficando nella rete" l’attore/musicista/autore poliglotta – brillante interprete della tradizione culturale ebraica – ha scoperto un testo della giornalista Lara Logan, proprio il tipo di articolo caro a quelli che "noncelodicono". Citando la paladina dell’estrema destra americana – cacciata perfino da Fox News per avere paragonato lo stratega della lotta al Covid Anthony Fauci a Mengele – sul Battaglione Azov, Ovadia ha imbastito una caotica intemerata per rivelarci che: i nazisti ucraini sono tantissimissimi; gli Usa e la Nato finanziano i nazisti; è per sfuggire ai nazisti che la Crimea ha votato l’annessione alla Russia (un surreale 95% di sì ottenuto sotto l’occupazione militare e la cui validità è negata dalla maggioranza dei Paesi). Poi è decollato in un parallelo acrobatico tra gli anni del banderismo e oggi, come da lectio moscovita, ribadendo il coinvolgimento degli Usa nell’armare "i discendenti degli ucronazisti che collaborarono con le Ss". Che poi – ci dice Ovadia con un tono tra il profetico e l’incazzereccio – non è così strano che Zelensky, seppur ebreo, flirti coi nazisti: lo si sarebbe già visto con quei presunti ebrei che servivano nella Wehrmacht e nelle Ss, come l’architetto della Soluzione finale Reinhard Heydrich (voci mai confermate, quelle sui bisavoli ebrei della buonanima, ma l’attore spiega di averlo letto "su un libro Newton Compton" sicché state sereni).

Ovadia sdogana così Logan, "un esempio di quello che è il giornalismo anglosassone", mentre quelli italiani "sono semplicemente velinari su ordine del governo degli Stati Uniti d’America". La stessa Logan secondo la quale sarebbe stata la ricca famiglia ebrea dei Rothschild a finanziare Charles Darwin affinché sviluppasse la teoria – ovviamente giudicata fasulla – dell’evoluzione, mentre Zelensky si dedicherebbe all’occultismo e Putin "si frappone tra noi e il Nuovo Ordine Mondiale", ennesima teoria del complotto ispirata agli altrettanto fasulli Protocolli dei Savi di Sion.

Non stupisce che per queste tesi Logan si sia meritata il plauso e la condivisione da parte del Cremlino. Stupisce semmai che un cantore dell’ebraismo del calibro di Ovadia si metta nelle mani di un soggetto in odore di antisemitismo, pur di sostenere a tutti i costi la tesi della guerra ‘americana’ e col rischio che qualcuno si faccia piacere la ‘denazificazione’ di Putin. Ma non date retta a noi velinari.

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