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La Madre Patria della discordia

La grande controversa statua con i simboli sovietici che domina Kiev fa litigare gli ucraini, ma mai quanto i concorrenti dell’Eurovision

La statua della Madre Patria con davanti due carri armati (Keystone)
16 febbraio 2022
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Dove oggi c’è una statua di 102 metri chiamata Madre Patria avrebbero dovuto essercene due – alte il doppio – di Lenin e Stalin. E dove oggi dovrebbe esserci una patria, in controluce se ne vedono tre. La prima, l’Ucraina, non c’è bisogno di cercarla: quando arrivi a Kiev e prendi la strada che porta al grande parco-memoriale che sovrasta il fiume Dnepr, ci stai camminando sopra. La seconda, l’Unione Sovietica, è ben visibile con il suo simbolo, la falce e il martello, inciso sull’enorme scudo che la statua della discordia tiene nella mano sinistra. La terza si respira nell’aria, è la Russia di Vladimir Putin, ex centro nevralgico e oggi anima errante dell’Urss.

Pur essendo un luogo legato al passato e alla memoria – con ridondanti altorilievi di soldati in tutto e per tutto ancorati all’iconografia del Novecento – questo parco-museo dedicato alla Seconda guerra mondiale sembra parlare più al presente che al passato, trascinandosi polemiche che sono al contempo attualissime eppure legate a un momento che non c’è più, quello della sua costruzione, fortemente voluta da uno dei tanti cortocircuiti sull’asse Kiev-Mosca, Leonid Breznev, ucraino di nascita e incarnazione del potere sovietico per diciotto lunghissimi e complicatissimi anni: dal 1964 al 1982, ovvero sino alla sua morte, è stato infatti segretario generale del Partito comunista sovietico, vale a dire capo supremo dell’Urss. Fu lui in persona, il 9 maggio 1981 (il giorno della vittoria contro i nazisti) a inaugurare la statua della Madre Patria: ancora non sapeva che di lì a non molto sarebbero morti entrambi, prima lui e poi l’Unione Sovietica.


La Madre Patria illuminata con i colori della bandiera ucraina (Keystone)

Odi et amo

Quel che resta oggi è una statua amata e odiata dagli abitanti di Kiev, che hanno cercato di cambiare ogni codice pur di farla tutta loro (con l’indipendenza il “memoriale sovietico della Grande Guerra” è diventato “Museo della storia dell’Ucraina”), senza riuscirci mai del tutto. È un pezzo ingombrante e riconoscibilissimo del loro Paese, eppure è stata commissionata da Mosca. Nell’ultima grande sbianchettata al passato firmata, nel 2015, dal presidente dell’epoca Poroshenko, si erano salvati solo i monumenti del grande memoriale sul Dnepr. A tutti gli altri nomi e simboli legati all’epoca sovietica e – di fatto – a Mosca veniva imposta la cancellazione o la sostituzione con un nome legato alla storia dell’Ucraina. Non è un caso che la guerra nell’est del Paese fosse iniziata l’anno prima, turbolenta annessione della Crimea compresa. Un modo di prendere le distanze da un passato ingombrante e da un presente invadente.

Nel frattempo, mentre la statua della Madre Patria veniva fasciata o illuminata con il giallo e l’azzurro, i colori della nazione, in un semplice - e comprensibile - atto di appropriazione culturale, c’era chi chiedeva di liberarsene una volta per tutte, fonderla e usarne il materiale per scopi più nobili: d’altronde quel simbolo era il simbolo di troppe cose per diventarlo di una sola. Bocciata la proposta, restò in piedi la questione della falce e martello sullo scudo: enorme, non si poteva ignorare. Si fecero un paio di preventivi per cancellarla, come certi tatuaggi con il nome dell’ex che non vogliamo più vedere davanti allo specchio, ma poi non se ne fece nulla. Negli anni l’unico intervento riguardò la spada, troppo lunga nel progetto iniziale e poi ridimensionata, qualcuno sostiene perché in quel caso la statua sarebbe stata più alta della cupola del vicino Monastero delle Grotte, anche se sembra una questione di sicurezza. Altre statue con spade troppo lunghe si erano rivelate pericolose e non abbastanza resistenti alle raffiche di vento.

E Così la Madre Patria resta lì, imponente, visitata ogni anno da milioni di persone, simbolo di un Paese che non riesce a staccarsi dal suo passato senza nemmeno la sicurezza di avere un futuro.


Fiocco rosso per la giornata della Vittoria, il 9 maggio (Keystone)

Cantanti in guerra

Nell’Ucraina post-sovietica c’è un altro argomento di discussione perfino più delicato della statua sul Dnepr, l’Eurovision song contest, in cui il Paese vanta ottimi piazzamenti, ma anche una storia travagliata, che quest’anno ha avuto l’ennesima appendice. La cantante Alina Pash, designata a rappresentare il Paese nel concorso 2022 ha deciso di ritirarsi dopo le polemiche legate a una sua visita in Crimea, la provincia passata in mano ai russi, ma il cui passaggio formale al nemico non è mai stato riconosciuto dall’Ucraina. Stando alle regole interne della selezione per l’Eurovision, nessun concorrente può aver visitato la Crimea se non passando attraverso dei checkpoint via terra. Lei, secondo chi l’accusa, sarebbe andata in aereo e lei non riesce a fornire prove del contrario. Alla fine Pash ha deciso di farsi da parte, non senza polemiche: ‘Sono una cittadina ucraina. Seguo le leggi dell’Ucraina, cerco di portare le tradizioni e i valori dell’Ucraina nel mondo. Non ho un esercito di manager e avvocati per resistere a pressioni, a attacchi e minacce… non voglio questa guerra virtuale e non voglio quella reale, una guerra arrivata dall’esterno, nel mio Paese, nel 2014. Non voglio più far parte di questa sporca storia”.


Jamala, l’ucraina vincitrice dell’Eurovision 2016 tra le polemiche (Keystone)

Polemiche ci furono già nel 2016, quando l’ucraina Jamala vinse l’Eurovision con “1944”, canzone che rievocava la deportazione dei tatari di Crimea da parte di Stalin. Per i russi era fin troppo facile trovare una correlazione tra quei fatti e l’annessione di due anni prima. Il regolamento dell’Eurovision non ammette canzoni apertamente politiche, ma Jamala spiegò che era solo una storia di famiglia legata all’esilio forzato della bisnonna. Il braccio di ferro con Mosca, che voleva l’esclusione, fu infine vinto da Kiev.

Nel 2019 ci fu già un ritiro: la vincitrice delle selezioni, Maruv, rifiutò di partecipare alla finale perché il contratto con la tv nazionale prevedeva la cancellazione di tutti i concerti in territorio russo. Quando anche le due riserve dissero no, l’Ucraina non poté far altro che dare forfait. Business is business, a ogni latitudine, con ogni moneta. Se il rublo chiama, la Madre Patria può attendere.


La statua di notte (Keystone)

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