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Il ritorno del maccartismo: ‘Quel prof è una spia cinese’

Charles Lieber nega tutto, ma ci sono le prove di una collaborazione con Pechino: rischia 15 anni. Sotto osservazione i grandi atenei Usa

Charles Lieber (Harvard. edu)
22 dicembre 2021
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Torna il maccartismo. Ma questa volta i cattivi, nel film che gli americani devono sceneggiare ogni volta per figurarsi un nemico, sono i cinesi. Sono finiti i tempi delle liste di proscrizione anti-sovietiche che colpirono Hollywood e le università, eppure quei tempi non sono mai finiti davvero. All’epoca misero al bando Elia Kazan, regista di “Fronte del porto”, oltre a diversi artisti, professori e scienziati. Tra i sorvegliati c’erano Albert Einstein e Charlie Chaplin.

Joseph McCarthy, il senatore che vedeva comunisti dappertutto, è morto più di 60 anni fa, ma i suoi incubi gli sono sopravvissuti. In tutto questo, a non dormire la notte è Charles Lieber, 62 anni, accusato di aver spiato per conto della Cina nel cuore di una delle istituzioni più conosciute d’America, l’Università di Harvard.

Le accuse

Lieber, uno dei docenti più stimati dell’ateneo ed ex vicepresidente del Dipartimento di chimica è stato condannato dalla corte federale di Boston per aver nascosto i suoi legami con Pechino. Rischia fino a 15 anni di carcere in un Paese in cui degli assassini conclamati (vedi il recente caso Rittenhouse, l’uomo che nel 2020 uccise due afroamericani durante una protesta di Black Lives Matter) escono dal tribunale assolti e inneggiati come degli eroi.

Il professor Lieber è accusato di aver lavorato per il Thousand Talents Plan, un programma cinese mirato a reclutare in America persone con conoscenze e competenze nel campo delle tecnologie e della proprietà intellettuale, ed era stato arrestato lo scorso gennaio. Lui ha sempre negato, in primis di essere una spia, e poi di aver trasferito a Pechino informazioni su tecnologie o brevetti, ammettendo però di aver collaborato col programma e spiegando di averlo nascosto solo per proteggere la sua carriera accademica e la sua reputazione.


L’Università di Harvard (Keystone)

I capi d’accusa vanno dalla falsa testimonianza alle false dichiarazioni fiscali, compreso il reato di non aver dichiarato l’esistenza di un suo conto bancario in Cina. Conto su cui sarebbero gravitate somme ingenti erogate da Pechino, compresi 50 mila dollari al mese dall’Università della Tecnologia di Wuhan. Gli investigatori hanno poi riscontrato il pagamento di almeno 158 mila dollari in spese di soggiorno e oltre 1,5 milioni di finanziamenti e borse di studio. Quello del professor Lieber è solo il caso più noto di una serie di indagini portate avanti dal Dipartimento di giustizia americano a partire dal 2018, nell’ambito dell’operazione denominata China Initiative. Operazione volta a smascherare casi di sospetto spionaggio economico da parte della Cina arruolando docenti, ricercatori, manager di aziende e altre figure professionali. Nel mirino in particolare gli atenei più titolati del panorama universitario americano: Harvard, Stanford, Yale, Berkeley, Princeton.

Ma centinaia sono gli accademici che hanno protestato contro questa azione del governo federale, scrivendo anche una lettera al ministro della giustizia Merrick Garland. Lettera in cui si sostiene come la China Initiative danneggi la ricerca accademica, ostacoli il reclutamento di studiosi stranieri nelle università americane e vessi in particolare i tantissimi docenti e ricercatori di origine cinese che lavorano negli Stati Uniti, provocando una sorta di ‘profilazione razziale’.

Dal 2021 al 1949

Torniamo al maccartismo originale. Siamo nel 1949, all’Università di Berkeley, in California. Il professor Ernst Kantorowicz, tedesco ed ebreo, insegna storia medievale. Lo fa da ormai dieci anni, quando il Consiglio d’amministrazione dell’Università decide di costringere i professori a firmare una dichiarazione di anticomunismo, pena il licenziamento. Siamo agli albori del maccartismo e della caccia alle streghe, e un giuramento di questo tipo ai più sembra una formalità. Non a Kantorowicz, che guiderà la fronda formata da 25 professori che rifiutano di firmare. Non perché fossero comunisti, anzi. La loro idea di libertà intellettuale era tale da farli arrivare a una conclusione magari non immediata, ma molto sensata, per nulla comunista e decisamente più americana di chi voleva estorcergli un giuramento: se si firma quel foglio, poi, cos’altro ci chiederanno? Dove si spingeranno? Avremo a quel punto la forza di dire no? Meglio non far rotolare giù la palla di neve che può diventare valanga. Alla fine non firmarono. E vennero cacciati.

La similitudine con oggi pare forzata, perché Lieber è stato beccato se non con le mani nella marmellata, almeno con la marmellata sulle mani. Lì si cercava di scovare il comunista solo col pensiero. O con un firma. Eravamo quasi agli psicoreati di George Orwell, che infatti terminò “1984” nel 1948 e lo pubblicò un anno dopo: per uno scherzo del destino il libro uscì l’8 giugno del 1949, Kantorowicz rispose con una lettera a quella richiesta anti-democratica appena sei giorni dopo, il 14 giugno.


Ernst Kantorowicz (Baeck Institute)

Kantorowicz era fuggito dalla Germania nazista nel 1939 dopo aver per un periodo contribuito alla voglia di grandeur del suo Paese con un tomo su Federico II di Svevia imbottito di miti germanici. Oltre a essere uno storico era un reduce di guerra e un nazionalista convinto. Poi arrivò Hitler, che – si dice – tenesse il suo libro sul comodino negli ultimi giorni passati nel bunker berlinese. Il Führer aveva pianificato l’annientamento degli ebrei molto prima delle camere a gas. Li umiliò e li fece odiare dai tedeschi poco a poco, facendo bollire l’acqua lentamente. Erano diventati normali i ghetti, i soprusi, i rastrellamenti. Poco a poco era diventato normale tutto. Come? Facendo rotolare la palla su un piano appena leggermente inclinato.

Lungi dal paragonare il Terzo Reich del Novecento all’America post-Trump del XXI secolo, ma anche la storia di Lieber rischia di essere l’inizio, sottovalutato, di qualcos’altro: un controllo sempre più mirato negli ambienti culturali. Se lui ha sbagliato paghi il giusto, chissà se nel frattempo i suoi colleghi sapranno come difendersi, come fece Kantorowicz, che finì la sua carriera a Princeton, uno degli atenei oggi sotto osservazione.

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