Estero

Hong Kong, condannati i leader pro-democrazia

Colpito anche il tycoon Jimmy Lai, era tra i promotori delle proteste del 2019

Il tycoon di Hong Kong Jimmy Lai (Keystone)
1 aprile 2021
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Il movimento pro-democrazia di Hong Kong subisce un'altra batosta avviandosi alla marginalizzazione pianificata da Pechino. Il magnate dei media Jimmy Lai e 'il padre della democrazia' dell'ex colonia, l'82enne Martin Lee, sono tra i sette attivisti giudicati colpevoli dell'organizzazione di una delle più grandi manifestazioni di massa, giudicata "illegale", nell'ambito delle proteste del 2019. I sette, con altri due imputati già dichiaratisi colpevoli, rischiano adesso una pena fino a cinque anni di carcere, in base alle decisioni prese dal giudice della Corte Distrettuale di West Kowloon, Amanda Woodcock, che ha disposto pure l'estensione della cauzione per alcuni fino alla sentenza prevista per il 16 aprile. Tre imputati, tra cui lo stesso Lai, resteranno infatti in carcere a causa degli altri procedimenti penali pendenti a loro carico e relativi alle ben più gravi accuse di violazione delle norme sulla sicurezza nazionale.

Le motivazioni

Il tycoon, fondatore di Next Digital, il gruppo che pubblica il popolare tabloid Apple Daily, è accusato di collusione con forze straniere ed è in arresto dalla fine dello scorso anno, mentre la condanna odierna è la prima legata al movimento antigovernativo durato mesi e partito a giugno 2019 in risposta al contestato disegno di legge sulle estradizioni in Cina. Il processo, apertosi il 16 febbraio, ha coinvolto alcuni degli esponenti più noti del fronte pro-democrazia di Hong Kong: oltre a Lee, avvocato, ex deputato e co-fondatore del Partito Democratico, e al 72enne editore Lai, in aula sono comparsi anche gli avvocati Albert Ho e Margaret Ng, e gli attivisti veterani Lee Cheuk-yan e Leung Kwok-hung, quest'ultimo noto con il soprannome di 'Capelli lunghi'. Mentre gli ex parlamentari Au Nok-hin e Leung Yiu-chung, anch'essi condannati, si erano dichiarati colpevoli in precedenza.

Su di loro pendeva l'accusa di aver promosso e partecipato alla protesta non autorizzata del 18 agosto 2019: una marcia tenutasi quel giorno nel centro di Hong Kong che fu in grado di mobilitare oltre 1,7 milioni di persone, secondo gli organizzatori, prendendo di mira sia il disegno di legge sulle estradizioni, ritirato in seguito dal governo locale, sia le brutalità della polizia contro i manifestanti. Il giudice Woodcock ha rimarcato, nel dispositivo, che l'accusa era stata in grado di dimostrare "oltre ogni ragionevole dubbio" che gli imputati avevano organizzato e partecipato alla protesta non autorizzata.

Le reazioni

L'arresto dei nove veterani pro-democrazia è stato condannato da diversi Paesi occidentali, che hanno criticato fortemente l'azione di Pechino anche per la riforma del sistema elettorale della città. In totale sono 47 a Hong Kong gli attivisti pro-democrazia che devono rispondere di violazioni alla legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino a giugno del 2020 e che prevede anche l'ergastolo per chiunque venga riconosciuto colpevole di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere. Pechino e il governo di Hong Kong hanno difeso le misure draconiane ritenute in grado di dare stabilità all'ex colonia britannica dopo le turbolenze del 2019, mentre la riforma del sistema elettorale, che blinda il controllo della città per i "patrioti" pro-Cina, assicurerà che l'amministrazione potrà concentrarsi sullo sviluppo della città, ha ricordato pochi giorni fa la governatrice Carrie Lam. Gli Stati Uniti sono tornati a sollecitare la Cina al rispetto dei diritti umani e degli obblighi internazionali, interrompendo quello che Washington ha definito "lo smantellamento delle istituzioni democratiche" della città. Un'azione mirata e precisa che "ha gravemente danneggiato i diritti e le libertà del popolo di Hong Kong", ha affermato il segretario di Stato Antony Blinken.

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