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La lunga marcia verso una sola Cina

Entro il 2049 Pechino vuole far tornare sotto il proprio controllo Hong Kong, Taiwan e Macao. E per ognuno ha una strategia diversa

La bandiera cinese a Hong Kong (Keystone)
10 marzo 2021
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La nuova Lunga marcia di Pechino è talmente lunga che finirà solo nel 2049. Restano 28 anni di tempo – tantissimi eppure niente – per far tornare sotto il controllo centrale tutte le periferie, da Hong Kong a Macao, da Taiwan ai territori della minoranza uigura. Per quella data dovrà esserci una sola Cina. Il processo è in atto e indietro non si torna. Anche se le reiterate rivolte di Hong Kong e gli attriti con Taiwan dimostrano che il percorso sia tutt’altro che lineare. A spiegarlo è Giulia Sciorati, research fellow del China Programme dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).

L’ex colonia britannica

La questione Hong Kong è complicata, eppure facilissima da comprendere. Un avamposto di democrazia a cui, piano piano, viene tolta la libertà. “Fino al 1997 è stato un protettorato britannico. L’accordo dell’epoca prevedeva che con il passaggio alla Cina avesse uno statuto speciale, con tanto di mini Costituzione e mini Parlamento. E un suo legislatore – ricorda Sciorati –. Ma lo status ibrido della città, che è un hub finanziario, ma soprattutto una finestra e punto di raccordo tra il mondo e la Cina continentale, ha creato un cortocircuito. La gente ha fatto sue le libertà democratiche ereditate dal passato, ma dietro l’angolo c’è la scadenza dell’accordo chiamato ‘Un Paese, due sistemi’. Nel 2047 Hong Kong perderà il suo status, e con quello anche la democrazia”. Il percorso è già avviato: “Per esempio i candidati alla carica di legislatore sono sempre prescrutinati da Pechino, cosa che ha creato malumori e proteste fino alla rottura delle relazioni bilaterali dopo le manifestazioni del 2019. Pechino oggi è molto più presente, occupandosi direttamente di sicurezza, che fino al 2018 era gestita a livello locale. E la nuova legge sulla sicurezza nazionale è stata la svolta, basti pensare a una clausola: chi parla di autonomia della città può essere giudicato da una corte della Cina continentale e non più locale, con tutto quel che ne consegue”. L’ultimo caso, con 47 imputati, è di pochi giorni fa. Gli arresti sono sempre più numerosi, ma per il momento senza grosse conseguenze. Il messaggio, però, è chiaro: non impicciatevi. “Oggi siamo a metà del guado, ma si va verso la Cina continentale, non c’è ritorno”, dice Sciorati. E chi pensa che Pechino così rinuncerebbe ai soldi che Hong Kong porta in dotazione, sbaglia. “Stanno creando hub diversificati per rimpiazzarla, come il polo di Shenzhen e la Greater Bay Area, equivalente cinese della Tokyo Bay Area”.

Le relazioni con Taipei e Macao

Prima certezza. La Cina non ha intenzione di invadere Taiwan, nonostante quel che si sente dire. “Taiwan non è uno Stato sovrano, ma è già parte della Cina, anche se non è mai stato chiaro quale sia il governo legittimo non solo dell’isola, ma di tutta la Cina, Pechino o Taipei. L’obiettivo di Pechino è arrivare all’unificazione entro il 2049. Finora la strada è stata politica, con la Cina che ha provato con candidati filogovernativi a cambiare le cose dall’interno. Si vuole portare Taiwan nelle stesse condizioni di Hong Kong. Ma proprio la stretta su Hong Kong ha spaventato Taipei, in particolare la presidentessa Tsai Ing-wen, tutt’altro che allineata. Ci sarà forte pressione da parte della Cina nelle prossime tornate elettorali, promettendo in sintesi più ricchezza in cambio di meno libertà. Benessere, sviluppo e modernità possono essere una merce di scambio per chi ha poco. D’altronde questo è il contratto sociale della Cina continentale”. L’altro ex possedimento europeo, Macao, “ha sempre digerito meglio il ritorno a casa. Tra le periferie è sempre stata quella più tranquilla. E se legge sulla sicurezza a Hong Kong è stata imposta, a Macao l’hanno fatta subito. C’è un rapporto più simbiotico con la Cina, attira molto turismo interno essendo una specie di Las Vegas d’Oriente. Lo stato ibridato le consente di portare avanti un’attività, come il gioco d’azzardo, che nel resto della Cina è illegale. Se da qui al 2049 ci saranno ancora i casinò non lo sappiamo, ma conviene a tutti trovare una trucco giuridico per tenerli, magari con una zona speciale”.

La minoranza uigura

Molto più complicata è la situazione delle regioni autonome, dove per via delle minoranze si è maggiormente rappresentati negli organi nazionali come il Parlamento, ma non si ha un’autonomia amministrativa. Il caso più famoso è quello degli uiguri. “Per etnia e cultura molto simili ai Paesi dell’Asia centrale, infatti sono musulmani. Hanno sempre spinto per l’indipendenza, soprattutto dopo la dissoluzione dell’Urss che fece nascere tutti gli Stan, ma lo Stato del Turkestan orientale non è mai nato. Negli anni gli scontri tra la minoranza uigura e la polizia sono diventati atti di terrorismo vero e proprio, come il camion lanciato verso le porte della Città Proibita nel 2013” – continua Sciorati –. “Quella è stata la scusa per attivare politiche di sicurezza che andavano a invadere la sfera personale delle minoranze. Con l’uso di tutte le tecnologie di sorveglianza, riconoscimento facciale e della voce, telefoni sotto controllo, dati biometrici. A questo si sono aggiunti dei campi di rieducazione di cui non si sa molto. Pechino dice che sono scuole professionali per migliorare lo sviluppo. Si esce in teoria diplomandosi in varie attività, dalla falegnameria allo studio del pensiero di Xi Jinping. Ci sono testimonianze agghiaccianti di quello che accade lì, ma, è giusto dirlo, c’è anche una forte componente di propaganda anti-cinese da parte degli Usa. Ma i campi d’internamento ci sono, eccome: vero e proprio strumento di controllo. La Cina è un Paese enorme e ha sempre fatto fatica a tenere a bada le spinte separatiste delle periferie, Tibet compreso”. Ma c’è un obiettivo da raggiungere, e per quanto possa sembrare lontano negli anni, Pechino non vuole lasciare più nulla al caso.

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