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Covid e vaccini, l’inimitabile modello Israele

Dai piani per bioterroristico sempre aggiornati al discusso accordo con Pfizer, che cosa rende il caso di Israele non esportabile

(Keystone)

Israele è tra i Paesi dove la campagna di vaccinazione contro il Covid è in fase più avanzata, spesso citato da chi lamenta i ritardi. Ma si tratta di un successo difficilmente esportabile, come ci spiega la giornalista scientifica ed docente di etica della ricerca all’ Università di Pavia Daniela Ovadia.

In che misura possiamo considerare la campagna vaccinale di Israele un modello?

In una misura difficilmente esportabile. Pfizer ha stretto l’accordo che ha permesso di far partire la campagna vaccinale israeliana per alcune peculiarità che rendono Israele unico. In primo luogo una popolazione piccola – parliamo di 9 milioni di abitanti – ma con una enorme variabilità genetica il che è molto importante dal punto di vista scientifico. Una popolazione geneticamente omogenea rischia di falsare i dati sull’efficacia vaccino, perché sappiamo che nella suscettibilità ad ammalarsi di Covid la variabilità genetica individuale ha un ruolo. Ci sono cinquantenni che si ammalano in modo grave e degli ottantenni per i quali è un semplice raffreddore, e questo non solo per questioni ambientali o immunitarie, ma anche genetiche. E in Israele troviamo molti gruppi etnici: mediorientali, europei, asiatici, anche africani con gli ebrei neri, i falascià etiopi. Altro punto per cui Israele è unico è l’assenza di confini permeabili: anche se formalmente in pace con Egitto e Giordania, di fatto ci passa pochissima gente.

Praticamente un’isola.

Di fatto l’unico punto di entrata è l’aeroporto internazionale di Tel Aviv, ma è facile controllarlo e chiuderlo. Altro punto estremamente importante è l’infrastruttura sanitaria efficiente e altamente informatizzata: la cartella clinica digitale è attiva da una decina d’anni ed è quindi facile raccogliere tutti i dati sanitari necessari per uno studio clinico. Infine, dai tempi della prima Guerra del golfo Israele ha un piano sempre aggiornato di gestione di attacco bioterroristico che prevede un progetto di vaccinazione rapida dell’intera popolazione. Il che significa avere già tutta l’infrastruttura pronta, sia informatica sia logistica: mentre altrove si deve pensare a come gestire gli appuntamenti e quali strutture utilizzare, in Israele è tutto già deciso, si sa già che i vaccini saranno somministrati in quella palestra e in quella scuola e chi dovrà nella prima e chi nella seconda.

C’è poi un altro aspetto per cui Israele è un modello ma difficilmente esportabile: il senso dell’obbedienza e fiducia verso le autorità. È un sentimento generale tranne che in due comunità che infatti da sempre costituiscono un grosso problema per l’esitazione vaccinale: la prima è la comunità ultraortodossa, gli ebrei cassidici che sono una specie di setta chiusa e che si sono anche opposti alle misure restrittive per la pandemia più che altro perché li avrebbe costretti a interagire con il mondo moderno; l’altra comunità è quella arabo-palestinese, non tanto quella urbana pienamente integrata ma quelle isolate e rurali ma devo dire che le autorità hanno lavorato bene a livello di comunicazione, coinvolgendo gli imam locali.

Israele ha pagato di più le dosi.

Politicamente non stimo per nulla il primo ministro Netanyahu, ma in questo caso ha fatto un calcolo da statista avveduto: pagare il vaccino il doppio di quello che pagavano gli altri è stato comunque un buon investimento economico perché avrebbe permesso di riaprire le attività economiche. È il libero mercato e Israele non è neanche il Paese che ha pagato di più: gli Emirati arabi e altri Paesi del Golfo li hanno ad esempio pagati di più. A facilitare le trattative, oltre al numero relativamente basso di dosi necessarie essendo come detto la popolazione contenuta, l’accordo firmato con Pfizer lo studio dell’efficacia e sicurezza del vaccino. L’azienda garantisce la fornitura non solo in cambio di più soldi, ma anche dell’accesso ai dati sanitari relativi alla fase quattro di sperimentazione, la farmacovigilanza. Questo è stato oggetto di dibattito etico interno ma più che altro per la scarsa trasparenza iniziale: i cittadini sono soddisfatti della decisione ma hanno protestato un po’ perché l’operazione avrebbe dovuto essere più chiara fin da subito.

Sarebbe stato necessario il consenso informato di chi si vaccina?

No, perché questa analisi aggregata degli effetti collaterali si fa in tutti i Paesi occidentali con i nuovi farmaci, è la fase di farmacovigilanza. In questo caso, più che gli effetti collaterali si voleva vedere l’efficacia in un contesto reale e con grandi numeri, ma sempre di sorveglianza post commercializzazione si tratta. Se a rigore di legge è stato tutto fatto in regola, giustamente i cittadini avrebbero voluto che i dettagli dell’accordo fossero resi pubblici subito, non solo dopo gli articoli di giornali. L’accordo adesso è pubblico anche se con degli omissis. In particolare un paragrafo che riguarda la responsabilità civile e l’ipotesi è che Pfizer, come Moderna e altri produttori, in caso di gravi problemi non rispondano loro ma gli Stati.

Un simile accordo sarebbe stato possibile in altri Paesi o le leggi sulla privacy lo avrebbero impedito?

Israele ha una legge sulla privacy affine a quella europea. I dati che vengono inviati a Pfizer sono aggregati, quindi non identificabili. Anche i dati di farmacosorveglianza raccolti negli altri Paesi vengono condivisi con le aziende produttrici, anche se meno rapidamente di come fa Israele grazie alle infrastrutture di cui abbiamo già detto. I dati comunque non sono comunicati solo a Pfizer, ma sono disponibili a tutti su una ‘dashboard’ online. La questione è più di etica della comunicazione pubblica che di bioetica.

In quei dati ci sono informazioni sull’etnia delle persone?

La profilazione etnica è vietata in Israele per cui nella documentazione sanitaria non c’è alcun riferimento. Ma i dati sono aggregati geograficamente e il Paese è vario ma si vive in comparti relativamente chiusi. Eventuali cluster di contagi o di effetti collaterali emergerebbero e si potrebbe indagare per stabilire se sono su base genetica o ambientale.

Il caso Palestina

Dosi con il contagocce

Di qua non ti obbligano, ma cercano di fartelo fare in tutti i modi, bonus pizza compreso. Di là non ti ostacolano apertamente, ma non fanno granché per aiutarti. Il vaccino in Israele e Palestina è uno specchio rovesciato: vedi la stessa immagine, ma al contrario.

Nel Paese con il più alto tasso di vaccinazione, davanti alle resistenze dei più giovani si offre un cocktail: l’accoppiata drink più vaccino funziona. E così nei bar spuntano postazioni mobili con medici e infermieri. Per convincere le giovani coppie il vaccino si può fare all’Ikea. E per stanare gli ultraortodossi ultracontrari si è scoperto che – a volte – bastava una pizza formato famiglia in omaggio.

L’altra arma è il passaporto vaccinale: permette di andare in piscina, in palestra, ai concerti. “Ma se il permesso certifica un più alto livello di protezione, non vuol dire che i concerti potranno essere affollati come prima o che il coronavirus sia scomparso”, specifica Sharon Alroy-Preis, dal Ministero della salute. Israele ha dato i vaccini in surplus perfino alla Mauritania, Paese senza legami diplomatici con Tel Aviv. L’accordo ci sarebbe anche con la Palestina, ma per ora le 100mila dosi promesse per i frontalieri non si vedono. Qualche dose dello Sputnik, il vaccino russo considerato di serie B, è arrivata. Ma per farne arrivare 20mila dagli Emirati, i palestinesi hanno dovuto usare uno dei valichi egiziani, perché dal lato israeliano non si passa.

“È sessanta volte più probabile vaccinarsi per un israeliano che un palestinese”, è il riassunto, fatto con i numeri, di Matthias Kennes di Medici senza Frontiere (Msf): “Le dosi rese disponibili finora non coprono il personale medico, figuriamoci tutte le persone a rischio”. Il Ministero della salute palestinese intanto si muove per altre vie, sapendo di non poter contare fino in fondo su Israele. Accordi con altri Paesi porteranno al 70% la copertura, ma non si sa bene quando né come.

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