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Razzismo, Covid, Trump: la miscela che incendia gli Stati Uniti

Intervsita a Fabrizio Maronta, consigliere scientifico di Limes sulla rivolta seguita all'uccisione di Goerge Floyd a Minneapolis

3 giugno 2020
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Fabrizio Maronta è consigliere scientifico e responsabile delle relazioni internazionali di Limes, la rivista italiana di geopolitica. Gli Stati Uniti sono uno dei temi della sua attività di ricerca. Lo abbiamo intervistato sull'origine e il quadro in cui avviene la rivolta che incendia le città statunitensi dopo l'uccisione di George Floyd.

Il fatto all’origine delle proteste è noto. Tuttavia non è il primo di questo genere, anche in tempi recenti. Si tratta dunque della ripetizione di uno schema già conosciuto, o vi sono elementi di novità?

 Le due cose. Direi intanto che c’è una evidente continuità con episodi analoghi - almeno a partire dal pestaggio di Rodney King, nel 1991 a Los Angeles, e dai disordini che seguirono - nel senso che ancora una volta si manifesta il razzismo che condiziona il rapporto tra agenti di polizia bianchi e cittadini afroamericani. In evidenza c’è la vena razzista e suprematista che alligna soprattutto nelle forze di polizia locali. 

Peraltro i due agenti più direttamente coinvolti nella morte di George Floyd avevano precedenti della stessa natura, ma se l’erano sempre cavata. E questo significa che non solo esiste una forte componente razzista nel personale di polizia, ma la complicità degli apparati garantisce loro l’impunità.

In un quadro generale di violenza spropositata nella condotta delle forze di polizia, esercitata soprattutto sulle minoranze etniche, va aggiunto anche un altro fatto che spesso non viene considerato: l’acquisto a prezzi di saldo da parte delle forze di polizia, di materiale bellico riportato dalle guerre in Afghanistan e Iraq, mezzi e armi individuali. Anche questo ha contribuito alla militarizzazione dell’ordine pubblico. 

E l’elemento di novità?

È la crisi economica e sociale portata dalla pandemia di coronavirus. Diciamo così: in precedenza la violenza della polizia sugli afroamericani era la miccia che accendeva l’incendio, e il combustibile - oltre alla questione razziale - erano la povertà e il disagio sociale. Oggi l'elemento contingente nuovo è la pandemia che ha imposto un gravissimo disagio economico, ma anche psicologico e sociale a milioni di persone, in un contesto in cui il lavoro non gode di alcuna forma di tutela. 

Se pensiamo al caso Rodney King, o, più indietro, alle rivolte che seguirono l’uccisione di Martin Luther King, nel 1968, vediamo che la protesta si concentrò sui temi della segregazione razziale e dei diritti civili. Viceversa, nelle occasioni più recenti le rivolte avevano una caratterizzazione più locale, circoscritta città o ghetti già degradati; mentre oggi la rivolta si è di nuovo estesa a quasi tutto il Paese, a conferma della gravità della crisi che vi si esprime. 

A ciò aggiungerei anche un elemento decisivo: la visibilità dell’atto. Il pestaggio di Rodney King era stato ripreso da un videoamatore con una ingombrante macchina da presa e all’insaputa degli agenti, mentre in questo caso l’agente è stato ripreso con lo smartphone da più persone, e nonostante ciò ha continuato a fare ciò che ha fatto, presumendo evidentemente di godere di impunità.

Nelle proteste pare si siano infiltrati elementi decisi a fomentare la violenza.  A beneficio di chi?

Sì, sembra confermato. Si tratta di provocazioni cercate dai gruppi di estrema destra, suprematisti, che vorrebbero scatenare nientemeno che una guerra civile, e che sono a loro volta la manifestazione di quel radicalismo che alligna nel cuore del Paese, alimentato dalla galassia di radio locali in mano ad agitatori.

Ma non direi che si tratta di un disegno strutturato, se non altro perché quella dell’estrema destra americana è una galassia frammentata.

Va anche detto che è risultato priva di fondamento l’accusa di alcune autorità cittadine, secondo le quali i saccheggiatori erano persone estranee alle realtà locali. In effetti, è stato riconosciuto che si trattava in gran parte di gente del posto, già provata dalla crisi dovuta al coronavirus. Sullo sfondo, l'epidemia di dipendenza da oppiacei causata in parte dalla spregiudicatezza dell'industria farmaceutica. Non per niente, la guardia nazionale è stata posta anche a vigilanza delle farmacie.

Donald Trump è il presidente della destra bianca, la cui elezione ha avuto un evidente contenuto di rivincita dopo i due mandati di Barack Obama alla Casa Bianca. La sua presidenza ha favorito un contesto in cui gli agenti come quello di Minneapolis possono sentirsi protetti? Questo presidente sarà a sua volta un elemento di esasperazione della crisi ( "when the looting starts, the shooting starts")?

Tenderei a escluderlo. Credo che Trump sia più che altro un sintomo e che la sua figura, per quanto controversa e dirimente, si inscriva in un quadro già consolidato. Piuttosto, è problematico il modo in cui affronta la situazione. Questo presidente sta facendo ciò che Richard Nixon fece in occasione delle rivolte seguite all'assassinio di King. Da un lato cerca di cavalcare la rabbia della componente bianca arrabbiata (quella che nessuno aveva visto arrivare e che lo ha portato alla Casa Bianca), soffiando sul fuoco dei movimenti della destra alternativa; dall’altro, esaspera la paura della maggioranza silenziosa che teme per la propria sicurezza. Quei cittadini che pure comprendendo il dolore e la frustrazione espresse dalla rivolta, ne temono le conseguenze. Il tutto in un Paese spaventato ed indebolito dalla pandemia.

Questo è del resto il tratto caratteristico della presidenza Trump. Aggravato dalla circostanza che non ha dinanzi un oppositore che lo obblighi a una condotta chiara.

Infatti: inevitabilmente gli avvenimenti di questi giorni sono messi in relazione alla campagna elettorale. In che misura e in che modo vi influiranno?

Contro Trump c’è il signor Joseph Biden, settantasette anni, che da tre mesi non esce di casa per paura di essere contagiato e che suscita più di una riserva, anche nel suo stesso partito, per l’assenza dalla scena pubblica e per la sua nota tendenza alle gaffe, che lo rende poco adatto al ruolo, anche mediatico, di “comandante in capo”. 

La grande differenza con un contesto come quello seguito al pestaggio di Rodney King è che l’allora candidato democratico alla presidenza Bill Clinton fece il giro dei ghetti, nonostante i rischi a cui si esponeva e le riserve del suo staff e di sua moglie Hillary.

Qui le considerazioni sono due. La prima è che il partito democratico deve ancora ritrovare se stesso. È il problema dell’afasia delle forze del campo socialdemocratico occidentale, che ha radici nella svolta neoliberista sulla scorta della ‘terza via’ di Tony Blair e di Clinton. La seconda è l’età di Biden: può oggi un settantasettenne fare il presidente degli Stati Uniti? In una fase convulsa come questa - davvero un rivolgimento storico - la mancanza di un ricambio generazionale nei ruoli apicali della società si avverte in tutta la sua drammaticità. Tanto più in una società pur dinamica come quella statunitense.

Trovo infine quasi paradigmatico che mentre la rivolta infuria, Elon Musk mandi due astronauti sulla stazione spaziale internazionale con un proprio razzo, aprendo secondo molti un nuovo capitolo nella corsa allo spazio. Ricorda il 1969: la gente con il naso in su a seguire Neil Armstrong che posava il primo piede sulla luna, mentre fuori le strade bruciavano. 

 

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