Estero

Elezioni europee, dinamiche locali

I circa 400 milioni di elettori europei si comporteranno principalmente come se si trattasse di un voto politico nazionale

25 maggio 2019
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I primi a votare sono stati, giovedì, i cittadini del Regno Unito e dei Paesi Bassi; seguiranno, sino a domenica, i restanti elettori degli altri ventisei Paesi. Dalle ore 23 del 26 maggio inizierà lo spoglio dei voti e si andrà definendo la composizione del prossimo parlamento europeo.

Il voto legislativo paneuropeo eleggerà 751 parlamentari, molti dei quali del tutto inutilmente: quei deputati britannici che di qui a qualche mese, a meno di rivolgimenti clamorosi, lasceranno gli scranni di un’assemblea nella quale il loro Paese non sarà più rappresentato. Il numero dei parlamentari scenderà così a 705, con una redistribuzione di seggi tra gli altri 27 Paesi membri.

Non è il miglior viatico per un turno elettorale che ha sempre faticato a venire inteso davvero come espressione di una scelta della e per l’Europa, risolvendosi piuttosto in una periodica verifica dei rapporti di forza su scala nazionale. Ciò che rischia di essere anche in questa occasione, nonostante che il discorso comune dipinga le elezioni di quest’anno come le più importanti in assoluto nella storia dell’Unione europea. In altre parole, i circa 400 milioni di elettori europei si comporteranno principalmente come se si trattasse di un voto politico nazionale. Con un sovrappiù di disinteresse, se si mantiene il tasso di partecipazione come metro di popolarità dell’eurovoto. Dal 1979, anno della prima consultazione, l’affluenza alle urne è andata regolarmente diminuendo: dal 62% di quell’anno, al 42,61% del 2014. Una percentuale che risulterebbe ancora più bassa se il voto non fosse obbligatorio in alcuni Paesi (Belgio e Lussemburgo). Mentre non è senza significato che nei Paesi di più recente adesione all’Ue, e in particolare in quelli del “gruppo di Visegrad”, alle ultime elezioni il tasso di partecipazione non abbia toccato il 30%. Ognuno per sé, dunque, e tutti contro tutti. Anche i “grandi gruppi” politici lo sono per convenzione: le differenze nazionali all’interno di popolari, socialdemocratici, liberali, nazionalisti sono molto marcate e portano a Strasburgo le contraddizioni dei rispettivi parlamenti. Non si sa neppure se in questo turno concorrerà a far sentire l’Europarlamento “più vicino” agli elettori la novità introdotta già nelle ultime elezioni, l’indicazione da parte dei gruppi di un nome candidato alla presidenza della Commissione. Concepita per dare almeno una parvenza di “elezione democratica” del vertice dell’esecutivo comunitario, l’indicazione degli Spitzenkandidaten (dal tedesco, naturalmente...) non sembra avere sfondato tra gli elettori. Una cui infima percentuale ne conosce i nomi.

Finirà perciò che i francesi sceglieranno tra Macron e Le Pen, gli italiani, pro o contro Salvini, i tedeschi si esprimeranno su Merkel, i britannici se far pagare agli europei altri mesi di stipendio a Niger Farage con il suo Brexit Party, gli ungheresi se plebiscitare Orbán. Eccetera eccetera. In uno scenario in cui (secondo un recente rilevamento dell’Eurobarometro) il 43% dei cittadini si disinteressa del parlamento europeo, e il 21% ne ha un’opinione esplicitamente negativa, è il minimo che possa accadere.

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