Ticino7

La paura della bomba atomica

La fobia del nucleare e l’attacco a sorpresa rimangono temi di grande attualità

5 maggio 2018
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Pubblichiamo un articolo apparso venerdì 4 maggio su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il finesettimana

Il 13 gennaio scorso, in un sabato presumibilmente assolato come ci s’immagina sia di solito il tempo alle Hawaii, gli abitanti dell’arcipelago hanno visto comparire sui propri smartphone un messaggio che diceva più o meno: «Un missile balistico si sta dirigendo verso le Hawaii, mettersi immediatamente al riparo. Questa non è un’esercitazione». Il comprensibile stato di panico generato da tale avviso ha avuto termine soltanto trentotto minuti più tardi, quando un altro messaggio ha avvertito che la comunicazione era stata inviata per errore. Considerato che le Hawaii sono il lembo di territorio americano più vicino alla Corea del Nord, e che l’ormai famigerato tweet di Trump a proposito delle dimensioni dei rispettivi (suo e di Kim Jong-un) pulsanti atomici datava ad appena dieci giorni prima, si comprende come gli hawaiani non siano stati particolarmente indulgenti nel giudicare la «svista».

Tre giorni dopo, il 16 gennaio, il servizio pubblico radiotelevisivo giapponese NHK ha diramato, di nuovo per sbaglio, un avviso di allerta missilistica attraverso l’applicazione J-Alert: un sistema appositamente messo a punto per avvertire in tempi rapidi la popolazione dell’occorrenza di terremoti, tsunami e altri eventi catastrofici. Per fortuna, in questo caso la smentita è arrivata dopo pochi minuti, ma la paura è stata comunque grande, anche perché il Giappone – altro Stato «a portata di bomba» – era reduce dall’allarme, stavolta fondato, del 29 agosto, quando un missile nordcoreano ha davvero sorvolato Hokkaido, nel nord del paese, per poi andare provvidenzialmente a sprofondare nell’oceano Pacifico, ben lontano dalle coste. I filmati che documentano i due minuti di attesa del missile, con la sirena che suona, intervallata dalle esortazioni a «mettersi al riparo», fanno un certo effetto anche solo a guardarli su YouTube, e lasciano immaginare cosa si possa provare ad ascoltarli in presa diretta.

C’era una volta… il giorno dopo

La paura dunque c’è e si respira, in questa Guerra fredda in salsa coreana che riporta alla mente gli anni Ottanta, quando le scolaresche venivano scortate al cinema per assistere a The day after e Reagan sembrava un pericoloso mitomane (ma solo perché non avevamo ancora visto niente...). Dall’inizio di quest’anno, le lancette dell’ «Orologio dell’apocalisse», il metaforico «segna-rischio» istituito nel 1947 da un gruppo di scienziati per indicare la probabilità di una catastrofe nucleare, sono state spostate a due minuti prima della «mezzanotte»: ci siamo andati così vicino solo nel 1953, quando gli Stati Uniti testarono il primo dispositivo termonucleare, seguiti di lì a poco dall’URSS. In questi settant’anni, il Doomsday Clock è stato «regolato» ventidue volte: il momento migliore l’abbiamo avuto nel 1991 quando, grazie alla firma del trattato per la riduzione delle armi strategiche (START I) e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, siamo riusciti a distanziarci di ben diciassette minuti dalla fine del mondo, ma è durata poco... Il progressivo aumento del rischio registrato da quattro anni a questa parte è determinato, secondo il board di esperti che si occupano di stimarlo, dal «fallimento dei leader mondiali nell’affrontare le incombenti minacce di guerra nucleare e quelle derivanti dal cambiamento climatico».

Coerentemente, lo scorso 20 gennaio l’Economist ha pubblicato sulle proprie colonne un sintetico vademecum intitolato Pensando l’impensabile: Come aumentare le probabilità di sopravvivere a un’esplosione nucleare. L’articolo, redatto sulla falsariga di un manualetto edito dalla difesa americana negli anni Sessanta, con tanto di mascotte – «Bert la tartaruga» – in copertina, fornisce in primo luogo alcune coordinate di base. Apprendiamo così che, se un ordigno di 300 chilotoni di potenza, tipo quello che la Corea del Nord ha testato lo scorso settembre, dovesse colpire una zona abitata, il 90% delle persone nel raggio di 1,9 km morirebbe istantaneamente; una morte un poco più lenta, dovuta alle radiazioni, mieterebbe invece circa metà della popolazione nell’arco di 15 chilometri.

Alcune regole d’oro

Per coloro che eventualmente dovessero sopravvivere, sarebbe bene tenere a mente alcune semplici regole, fra cui: (1) non guardare mai l’esplosione, neppure con gli occhiali da sole: il suo fulgore è tale da rendere ciechi; (2) sdraiarsi e coprirsi in modo da schivare l’onda termica che dura alcuni secondi dopo la deflagrazione (come suggeriva Bert la tartaruga, «duck and cover»); (3) l’enorme spostamento d’aria solleverebbe inoltre un vento fortissimo, simile a quello di un uragano, e si raccomanda quindi di tenersi lontani da vetri infranti o altri detriti taglienti che verrebbero scagliati tutto intorno; (4) la detonazione formerebbe una colonna di polvere e frammenti di circa cinque chilometri d’altezza che impiegherebbe almeno dieci minuti a depositarsi: per evitare il fallout radioattivo, durante questo periodo i sopravvissuti dovrebbero cercare riparo sotto terra, in rifugi sigillati provvisti di acqua e cibo non deperibile, una radio e molte pile di scorta, anche perché i telefoni smetterebbero di funzionare; (5) dopo circa due giorni, la radioattività più intensa inizia a decadere: a quel punto ci si potrebbe arrischiare a uscire...

Tuttavia, considerato che il lancio di una singola testata nucleare innescherebbe una reazione a catena per cui centinaia di ordigni verrebbero attivati ed esplosi, provocando un «inverno atomico» che impedirebbe ai raggi solari di raggiungere la Terra per almeno un decennio, l’esito più che probabile, sostanzialmente certo, sarebbe l’estinzione di quasi tutte le specie fra cui la nostra.

A fronte di questa prospettiva s’intuisce la limitata utilità di servizi d’allerta e manuali di sopravvivenza; ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire, e così in Giappone da alcuni mesi a questa parte la vendita di bunker anti-atomici è cresciuta. Un aumento relativo, considerato che un caveau capace di ospitare tredici persone costa l’equivalente di circa 220mila franchi e richiede quattro mesi di tempo per essere costruito. Tuttavia, Oribe Seiki Seisakusho, un’azienda specializzata nel settore che riceve in media sei ordini all’anno, afferma che nel 2017, durante il solo mese di aprile, ne sono arrivati otto. Nello stesso periodo, Oribe ha venduto 50 purificatori per l’aria (capaci di filtrare radiazioni e gas tossici) fabbricati in Svizzera, paese che, insieme a Israele, detiene la tecnologia più avanzata per questo genere di prodotto. Ma non si tratta solo del Giappone: anche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Australia le richieste si stanno moltiplicando. Non così nella Confederazione, per la semplice ragione che la Svizzera è l’unico paese al mondo ad avere già pronti rifugi sotterranei, pubblici e privati, capaci di ospitare più della totalità della popolazione. Nel 2006 eravamo al 114%, oltre un posto protetto per abitante; in Europa, solo la Svezia e la Finlandia si avvicinavano a queste percentuali, con una copertura di, rispettivamente, l’81 e il 70%; in Austria ci si attestava invece sul 30%, in Germania addirittura il 3% (fonte: swissinfo.ch).

Svizzeri, «rifugiati» per legge

La costruzione dei rifugi è iniziata verso la metà degli anni Sessanta in ottemperanza agli articoli 45 e 46 della Legge federale sulla protezione della popolazione (Lppc), che così esordisce: «Ogni abitante deve disporre di un posto protetto raggiungibile in tempo utile dalla sua abitazione». Gli edifici iniziarono quindi a essere dotati di bunker, ai quali negli anni se ne aggiunsero altri, più grandi, gestiti direttamente dalla Protezione Civile e dalle autorità. «La neutralità non garantisce dalla radioattività» era uno dei motti in voga all’epoca, in piena (e forse giustificata) paranoia da guerra nucleare. E così la costruzione dei rifugi continuò da allora fino a raggiungere la cifra di 300mila unità in edifici abitativi (siamo nel 2006). Oggi a questi si sommano gli oltre 5’000 rifugi comuni in costruzioni pubbliche (a volte ben «mimetizzati» nel paesaggio), strutture preferite rispetto ai rifugi privati che in molti comuni non più obbligatori previo un «contributo sostitutivo».

Al termine di quell’anonima rampa che scende nel sottosuolo, così come oltre la soglia di quella che appare come una normale cantina, si aprono unità abitative «parallele», alcune grandi centinaia
di metri quadrati, attrezzate e rifornite per garantire un’autosufficienza di alcuni mesi. In silenziosa e paziente attesa dell’apocalisse. Nel frattempo, i bunker oggi «declassati» ospitano altro, da locali prova per novelli rockettari a depositi asciutti e sicuri. Meglio così.

 

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