Estero

Cosa manca all’Europa, intervista a Prodi sul brexit

Tutti sono uguali, qualcuno di più
22 giugno 2016
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‘Una eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione europea sarebbe un passo grave ma non una tragedia’, visto che Londra ha sempre tenuto un piede fuori. Il problema dell’Ue, considera Romano Prodi, ex presidente della Commissione Ue, è la perdita di una prospettiva storica, della coscienza che la pace di cui ha goduto il continente per settant’anni, è stata una eccezione nella sua storia.

Presidente Prodi, condivide i timori suscitati dal voto britannico sull’Ue? Che cosa potrebbe accadere in Europa se i britannici dovessero decidere di lasciare l’Unione?
Non ho strumenti per fare previsioni, penso comunque che la Gran Bretagna rimarrà nell’Unione europea. Una prima osservazione: i referendum non sono mai fatti sul contenuto dei referendum ma sulle implicazioni politiche, sui personaggi che li propongono, e anche quello britannico non sfugge a questo. I temi dell’immigrazione, del terrorismo, di tutto quello che c’è stato intorno hanno certamente contribuito a creare un’opinione pubblica più nervosa. Però gli inglesi sono un popolo molto razionale. Quindi mi auguro che rimangano.

Pensiamo allo scenario peggiore per gli europeisti: l’uscita del Regno Unito comporterebbe l’inizio della fine dell’Ue o una sua riconsiderazione, magari in chiave diversa come un’Europa a due velocità?
Mi auguro che rimangano, ho detto, ma se il Regno Unito uscirà dall’Ue non vi sarà una inevitabile tragedia. Prima di tutto perché il Regno Unito rimarrebbe nell’area economica europea, e prima dell’addio definitivo vi sarebbero un paio d’anni di negoziazioni. Ma certamente sarebbe il segnale di un’Europa che invece di allargarsi, di infettare positivamente l’ambiente circostante, si mette in ritirata. È chiaramente un messaggio negativo, ma non tragico anche perché il Regno Unito gode già di tante eccezioni rispetto alla politica europea più avanzata, pensiamo non solo all’euro ma anche alla libera circolazione delle persone, alle norme di Schengen. Siamo già da anni in un’Europa a due velocità: la ritengo, ahimè, inevitabile. L’alternativa è il blocco.

L’ideale europeo per il quale lei ha lottato (nel corso della sua presidenza l’Ue si è allargata ad altri dieci Paesi) oggi è in crisi. E proprio tra quei dieci Paesi, molti manifestano una visione dell’Europa in antitesi a certi ideali. Penso ad esempio al capitolo profughi: si osservano, dalla Polonia all’Ungheria, ondate di chiusura che contrastano con l’ideale di Europa che lei ha conosciuto.
È vero, ma le sembrano queste politiche molto diverse da quella britannica? Diciamo la verità. Prima di tutto l’allargamento sia benedetto, perché non vorrei vedere oggi una Polonia nelle condizioni dell’Ucraina, ma veniamo alla domanda. Ho gestito l’Europa a 15 e poi a 25. Non ho mai trovato una grande differenza. La vera alternativa al tipo di Unione l’ha sempre fornita la Gran Bretagna, che ha una storia di forte indipendenza, di rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, una storia spiccatamente insulare. E poiché i Paesi dell’Est hanno sempre avuto come punto di riferimento la Gran Bretagna, la sua uscita dall’Ue potrebbe sì generare dei problemi.

Stiamo assistendo all’esplosione dei movimenti populisti un po’ ovunque in Europa. Un filo rosso tra questi movimenti è l’impopolarità dell’Europa. Non crede che l’Ue abbia in fondo una certa responsabilità nell’ascesa della destra populista?
Ritengo che sia più una scusa che una ragione. È che la gente oggi ha paura: della crisi economica e soprattutto dell’immigrazione, che ha prodotto un salto di qualità della paura. Poi si trova nell’Europa un agnello sacrificale, ma credo che dovremmo affrontare insieme problemi che separatamente non riusciamo a gestire. In Europa ci può essere una sola Svizzera, non c’è posto per dieci.

In tema di immigrazione, è rimasto sorpreso dalla posizione irrituale di Angela Merkel?
Angela Merkel prima ha annunciato l’apertura della Germania ai migranti, poi ha dovuto chiudere, ma è stata coraggiosa a farlo, nonostante la politica degli altri governi europei, e sfidando l’ostilità del proprio elettorato. Questo caso conferma che il vero problema è che non abbiamo più una democrazia decidente, ma leader che segnano il tempo senza dirigerlo. In fondo rimpiango quando Kohl mi diceva: “I tedeschi non vogliono l’euro ma io sì, perché voglio una Germania europea, non un’Europa tedesca”. Intendo leader capaci di guidare, di andare contro gli umori degli elettori. Oggi abbiamo una democrazia ‘barometrica’.

Perché mancano i grandi leader del passato? È anche questo un effetto della globalizzazione, dello spostamento dell’autorità dalla politica ai mercati, per dirla con Zygmunt Bauman?
È molto più semplice. In calendario vi sono continue elezioni e i politici, per effetto di tutte le analisi demoscopiche, sono sempre davanti a una prova, che li costringe a tenere conto degli umori dell’elettorato. Naturalmente Bauman ha ragione, ma qui si tratta d’altro, della gerarchia di comando in un mondo in cui il capitale mobile finisce per determinare le azioni dei governanti immobili. Ma sono due fenomeni abbastanza staccati tra di loro.

Una delle ragioni di sfiducia nell’Ue risiede nella crisi economica. Lei, ancora recentemente, ha criticato la politica tedesca di austerità. Ma quest’Europa che segue due modelli, invece di accusare la Germania non farebbe meglio a farlo con coloro che non rispettano le regole?
Se non si cresce è difficile riuscire in quest’operazione. Dalla Germania non pretendo aiuti, ma non riesco a capire perché abbia applicato l’imperativo dell’austerità nella propria politica interna. Perché un Paese debba avere un surplus commerciale di 270 miliardi all’anno e non investire in infrastrutture, in crescita, in sviluppo. Non ho mai pensato che la funzione tedesca fosse di dare aiuti, ma di rendersi conto dei problemi altrui. Qualche anno fa imprecavamo contro la Cina per il suo surplus del 6%; bene, quello tedesco è dell’8%. Fin dall’inizio non ho chiesto eccezioni alle regole, benché io stesso le abbia definite stupide. Ma ai miei studenti ho sempre insegnato che nel bilancio pubblico ci sono anni in cui è necessario un deficit e anni in cui vuole un attivo. Imporre regole fisse è sbagliato.

La Germania si oppone anche agli eurobond. Non bisogna capire la sua diffidenza?
Certo, ma ricordo la notte in cui, da presidente della Commissione, rimproverai Francia e Germania per la violazione dei parametri di bilancio e mi sentii rispondere che gli esami se li facevano da soli. Il risultato è che non esiste ancora una Corte dei conti europea. Pensi: la Grecia ha imbrogliato sui propri bilanci? Certo, ma Francia e Germania per prime hanno concepito la sovranità nazionale come fatto esclusivo, dunque…

Anche papa Francesco ha richiamato l’Europa ai suoi doveri di accoglienza nei confronti dei migranti…
Condivido in pieno il suo richiamo. Naturalmente il Papa sa bene che il passaggio dal richiamo morale alla costruzione politica è difficile. Ma il problema è più grave e generale, ed è quello dell’assenza di una politica estera europea. Persino il problema ucraino è gestito da Stati Uniti e Russia, quasi che l’Unione non esistesse. Del resto, la politica delle sanzioni europee alla Russia è non meno contraddittoria. Pensi alla Germania, capofila nell’imporre sanzioni a Mosca mentre sigla un contratto con la Russia per un gasdotto di importanza cruciale…

Torniamo alla rinascita dei nazionalismi, legata alla paura della globalizzazione. Perché l’Europa non è intesa come un baluardo davanti alla globalizzazione, una difesa?
Dovrebbe esserlo, ma in Europa sopravvive una certa fesseria. Pensi al Rinascimento, quando gli Stati italiani erano leader in ogni settore di qualche importanza. Ebbene, dopo la scoperta dell’America, che diede inizio alla prima globalizzazione, nessuno di quegli Stati fu in grado di sopravvivere. Oggi, gli Stati europei sono nella stessa situazione: non sanno costruire le caravelle del nostro tempo. Ci stiamo suicidando di fronte alla Storia. Ma la gente non ha ancora questa sensibilità.

L’Europa, si dice, ha bisogno di un governo forte. Una prospettiva che non piace a una parte importante della politica e dell’opinione pubblica.
Temo che solo un aggravamento della crisi potrà fare affiorare un più consapevole sentimento della Storia. Manca la coscienza del rischio che abbiamo corso. Forse stiamo rimandando il nostro declino, ma è un’illusione credere che sia possibile. Non perché siamo meno forti: non siamo uniti. Mancano questa consapevolezza e un leader che la sappia interpretare. Anche negli anni di Kohl e Mitterrand gli interessi erano tanti e diversi, ma sorse tra loro il senso della Storia. Quando mi rivolgo ai giovani, constato quanto poco capiscano che la pace è un’eccezione nella nostra storia. Spero che non servano lezioni tragiche perché si ritrovi quella coscienza.

Il testo dell’intervista qui pubblicata, per gentile concessione, è un adattamento della versione integrale che andrà in onda alle 9 di giovedì 23 giugno su Rete Due della Rsi.  

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