Professoressa Pisanty, citando Maurice Halbwachs, lei ha scritto che la memoria collettiva è funzionale alle sensibilità e ai progetti di chi la gestisce. Osservazione importante, ma non rischia di essere vicina a quelle di chi sostiene che quella della Shoah, un pilastro della coscienza collettiva della nostra età, sia uno strumento in mano a chissà quale potere, o quantomeno – se pensiamo alle sensibilità del mondo arabo-musulmano – in mano a Israele e ai suoi alleati?
In effetti, per memoria collettiva intendiamo una sorta di competizione tra “agenzie” variamente motivate e potenti per esercitare il controllo su di essa. Non bisogna tuttavia pensare a un unico soggetto che tiene in mano i fili della memoria, ma ritenerla piuttosto come un campo in cui si confrontano soggetti diversi, con interessi e fini differenti, siano ideologici, politici, come spesso accade con la memoria di eventi traumatici recenti.
Ciò che dunque chiamiamo memoria collettiva è l’esito sempre provvisorio della competizione di tutti i soggetti in campo. Questo perché la memoria ha un aspetto proprietario imprescindibile: la memoria è sempre di qualcuno (ciò che la distingue dalla storia), e poiché chi se ne sente titolare ritiene di poterne fare l’uso che vuole, diviene pressocché inevitabile che attorno alla memoria di grandi eventi fondativi nascano polemiche e conflitti. Chi ha la possibilità di affermare la propria rappresentazione degli eventi tenta di monopolizzare il discorso pubblico attorno ad essa.
La stessa istituzione della ‘Giornata della memoria’ è coerente con questo quadro?
Sì, nonostante gli equivoci che ha generato. In origine, il progetto di Furio Colombo non era principalmente di affermare la memoria delle vittime della Shoah; ma era piuttosto rivolto allo studio e alla messa in luce delle responsabilità italiane in quell’evento. Doveva cioè essere una giornata di studi, più che di commemorazioni, che si interrogassero sull’identità italiana, sui silenzi rimasti attorno a quel capitolo ingombrante della storia nazionale. Non è stata interpretata così dai media e da molti insegnanti. Complice la scelta della data, il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, è prevalsa l’idea di una commemorazione, addirittura di celebrazione collettiva. (...)