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'Vi racconto mio padre Paolo Borsellino'

A Como la figlia Fiammetta: 'Anni di depistaggi ma credo ancora nello Stato italiano'

10 aprile 2019
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«La mafia ha un inizio e una fine, come tutte le cose umane che hanno una loro evoluzione. Era solito ripeterlo Giovanni Falcone. Il raggiungimento della fine dipende però dall’impegno che tutti noi mettiamo nella lotta all’illegalità. Non basta solo perseguire il reato ma capirne le cause. Mio padre ha dedicato tutta la vita per trovare risposte al perché». C’è riuscito? «Sia lui che Giovanni si sono visti bruciare il tempo. Uccisi entrambi da Cosa Nostra, nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio».

Fiammetta Borsellino lunedì era a Como nell’ambito della settimana della legalità che si è aperta con l’intitolazione della Biblioteca comunale a suo padre Paolo. Giovanni Falcone sosteneva anche che per sconfiggere la mafia occorreva seguire l’odore dei soldi e per questo motivo spesso era arrivato sino a Lugano. «È vero, oggi come ieri, ciò che fa impazzire i mafiosi è la possibilità di perdere i soldi. Ne era convinto anche mio padre». Fiammetta Borsellino ha aperto una pagina sul modo di operare del magistrato – Paolo Borsellino – che assieme a Falcone più di ogni altro ha inflitto colpi che per Cosa Nostra sembravano colpi mortali: «Mio padre cercò sempre la verità ma dopo la sua morte questa ricerca non è stata perseguita. Tutti sapevano e mio padre si definì un morto che camminava, ma nulla fu fatto per tutelare la sua incolumità. Dietro questa inerzia ci sono stati solo trasferimenti, molti testimoni non furono sentiti al processo per la sua morte e per quella degli uomini della scorta». Un breve spaccato sugli anni più difficili: «Abbiamo convissuto tutta la vita con il pericolo. Sapevamo che quella era l’unica strada percorribile e questo ci ha dato la forza di combattere e di vincere la paura. A volte camminavo davanti a lui, in senso di protezione. In quei 57 giorni (il periodo fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ndr) si distaccò da noi, era avvolto in una tristezza di fondo, la tristezza di chi andava incontro al sacrificio. Mio padre e Falcone non erano santi ma uomini comuni che compievano il loro dovere». Una curiosità: «Mio padre era appassionato di linguaggi: sapeva interpretare le allusioni, le ambiguità, i silenzi e i gesti della Sicilia e dei siciliani, dove spesso le parole significano altro. Con Giovanni Falcone capì che per muoversi nella giungla del linguaggio mafioso bisognava parlare la stessa lingua, che lui stesso aveva appreso sin da ragazzo nel quartiere palermitano La Kalsa, giocando con i figli dei mafiosi. Apprese quel linguaggio e lo utilizzò negli interrogatori. Buscetta fu come un insegnante di lingua straniera. La morte di mio padre arrivò al culmine dell’odio della compagine mafiosa contro coloro che combattevano l’illegalità». L’isolamento di Falcone e Borsellino. «Quando mafia e Stato si mettono d’accordo – ha sottolineato Fiammetta Borsellino – gli uomini come mio padre restano isolati. Dalle istituzioni, dai colleghi, dalle persone. Lo strumento mafioso più potente è l’omertà che si combatte con lo studio e la cultura».

Poi, parole pesanti come macigni da parte della figlia del magistrato siciliano: «Dopo la strage ci sono state azioni di depistaggio che hanno allontanato la verità. Abbiamo rispettosamente aspettato per 25 anni, e ancora non abbiamo avuto tutte le risposte. La verità sulla morte di mio padre è un atto dovuto da parte delle istituzioni. Nonostante tutto questo io credo ancora nello Stato e nel popolo italiano. La mia terra, la Sicilia, ha un individualismo radicato ma allo stesso tempo ha partorito uomini come mio padre e Giovanni Falcone». La settimana della legalità continua sino a venerdì. Oggi dalle 9.30 alle 12.30 Alessandra Dolci, procuratore aggiunto, capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, dialogherà con gli studenti su ‘La mafia teme la scuola più della giustizia’.

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