Economia

Mercati, è l’Europa a trascinare l’America

Ora la recessione è diventata solo un’ipotesi

Iniziato il 6 gennaio, perché deve essere una tradizione far partire la borsa con un botto a inizio anno, il rialzo di Wall Street s’è alimentato con un dato dell’inflazione migliore delle attese ed è proseguito quasi senza soste fino a oggi e con una straordinaria accelerazione dopo il 19 gennaio. Questa volta, a dire il vero, sono stati i mercati europei a trascinare l’America, forti nella convinzione che il prezzo del gas, dimezzatosi in due settimane dai 140 euro di metà dicembre, potesse dissolvere l’inflazione e vanificare una recessione data ormai per certa.

Come corollario, il ragionamento si fondava e poggia tuttora sul presupposto che le banche centrali avrebbero presto posto fine ai rialzi dei tassi e avrebbero iniziato a tagliarli già nella tarda primavera. Il rapido mutamento d’umore degli investitori (l’indice S&P è cresciuto del 6,2% e lo Stoxx 50 del 10% da inizio anno) è tipico di borse convinte che il ciclo ribassista sia ormai esaurito, come a marzo 2003 e 2009, alla fine di un’estenuante recessione.

Ma questa volta, tutto è avvenuto senza che nulla di grave sia davvero capitato, perché una recessione, conclamata a parole, è svanita in un comodo raziocinio. Il presunto, scampato pericolo non spiega l’esuberanza degli investitori che, nell’anonimità dei sondaggi, continuano a dirsi pessimisti sulle prospettive dell’economia e della borsa: il 74% dei 1.280 intervistati da un broker americano si spetta l’indice di Wall Street sotto i 4mila punti a fine anno (4.119 mercoledì scorso), e quasi la metà di costoro persino sotto i 3.300. Tuttavia, un gennaio così brillante, il migliore da 22 anni per il Nasdaq, si spiega con una più prosastica ragione: gli acquisti forzati di quanti avevano venduto in precedenza allo scoperto, sempre più intensi man mano che l’indice seguitava a crescere. A questi ritmi e con l’S&P sopra i 4.100 punti, commenta Michael Hartnett, capo degli investimenti di Bank of America, «per i ribassisti sarà come farsi un bagno nella lava».

I conti

Per avere un’idea di quanto potente sia la leva delle ricoperture, basta osservare la seduta del 27 gennaio quando, a fronte di un rialzo dell’S&P dello 0,25%, i titoli più venduti al ribasso sono balzati del 7%: tra questi Tesla che dal minimo d’inizio anno è salito del 71%. E i 10 titoli tecnologici più amati dagli investitori (Fang+Tm), pesantemente venduti nel corso del 2022, sono cresciuti del 25% a gennaio. Siccome i guadagni di borsa sono contagiosi e ingolosiscono persino i prudenti, alla fine s’è vista anche la corsa di chi non voleva lasciarsi scappare la nuova, straordinaria «inversione di tendenza». In questa schiera pullulano i piccoli investitori, come testimoniano i titoli di società senza profitti (GameStop, per esempio), volati del 30% circa da inizio anno. I flussi di denaro riversati in borsa dalla clientela «al dettaglio» ammontano a oltre 1,2 miliardi al giorno, secondo le stime di Vanda Research, con un incremento del 25% rispetto a dicembre: una liquidità aggiuntiva non lontanissima da quella vista ai tempi dell’euforia tra aprile 2020 e novembre 2021 (circa 1,5 miliardi al giorno). Si sa che le considerazioni fondamentali non sono propriamente una prerogativa dei piccoli investitori, se i titoli di società che hanno annunciato trimestrali inferiori alle attese sono saliti dello 0,1%, anziché perdere il 2,2%, come mediamente era successo negli ultimi 5 anni (dati FactSet).

Davanti alla ritrovata esuberanza, un trader dell’ottimista Goldman Sachs ha esclamato: «Non voglio comprare una borsa che esprime un rapporto prezzo utili di 18 con la prospettiva di profitti a crescita zero». Quel rapporto sarebbe già a 19, ma potrebbe persino arrivare a 22, poiché Goldman stima un calo degli utili 2023 dell’11% in caso di recessione: multipli visti solo tra fine 2020 e inizio 2021, nettamente superiori alla media degli ultimi 20 anni. Figuriamoci se l’indice dovesse crescere fino a 4.300, come ipotizzano (con rassegnazione) gli analisti di Goldman: una borsa che sale in questo modo davanti alle brutte notizie «non c’è verso di farla scendere», ha commentato Matt Fleury.

Qualcosa d’irrazionale dev’esserci davvero in questa ritrovata esuberanza di Wall Street, se persino il più ostinato «rialzista», quel Marko Kolanovic, strategist di JPMorgan, che da sempre invita a comprare titoli, sostiene adesso che una recessione è imminente e che l’S&P chiuderà l’anno in ribasso. Per ora la recessione è solo un’ipotesi che il ritrovato ottimismo delle ultime settimane tende ad affievolire, ma che appare concreta negli indicatori prospettici, quali i Pmi o gli Ism sull’attività manifatturiera e dei servizi: tutti sotto la soglia di contrazione, specie in America.

È curioso che le borse, per natura rivolte al futuro, si cullino invece con dati coincidenti o storici migliori delle attese, come il pil, i consumi, l’inflazione o il mercato del lavoro e trascurino volutamente le indicazioni che arrivano dalle imprese e persino le peggiorate previsioni degli amministratori sull’andamento dei futuri utili societari. Se guardiamo ai Leading Economic Indicators, scesi negli Usa di quasi il 7% dal picco, a un livello che storicamente ha preannunciato una recessione, c’è poco da star tranquilli. Il miglioramento delle condizioni economiche, argomentano invece gli operatori, sarebbe testimoniato dall’indice delle sorprese economiche elaborato da Citi, in netto rimbalzo a gennaio. Ma se prendiamo l’indicatore costruito da Bloomberg, depurato dalle componenti coincidenti (lavoro), ci si accorge che la tendenza è in costante peggioramento da oltre un anno, con un crollo proprio a gennaio.

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