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Blocchi regionali e protezionismo contro le economie emergenti

I Paesi Non Allineati Nuovi (Nan) temono che la loro crescita venga ostacolata dai muri commerciali eretti da Stati Uniti, Europa e Cina

Quella della Corea del Sud (nella foto, la capitale Seul) è una delle economie che in un mondo di scambi aperti hanno prosperato
(Keystone)

Non siamo ancora al "cane mangia cane". Sarebbe bene non arrivarci: l’invasione dell’Ucraina, l’emergere di governi autoritari sempre più assertivi, il disordine globale, la lotta per le varie egemonie globali e regionali danno l’idea del rischio che il mondo corre, non dissimile da quelli di epoche drammatiche del Novecento. Al World Economic Forum di Davos, la settimana scorsa, una delle parole più usate – sì, poco originale – è stata Polycrisis, per indicare le molte convulsioni della nostra epoca.

In questo umore piuttosto nero, il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk-yeol, ha sostenuto la necessità di non creare blocchi di Paesi come risposta alle divisioni del momento. «Tirare su muri e intensificare il protezionismo non può essere la soluzione giusta – ha detto –. Il libero flusso di conoscenze, capitali e beni che supera le frontiere ha aiutato a spingere in avanti la nostra civiltà». In effetti, siamo in un passaggio storico che autorizza a usare il termine civiltà: tante conquiste sono in discussione e rischiano di andare perse. Ogni tanto, dunque, vale la pena di dare ascolto a quei Paesi che i muri non amano e che di blocchi regionali non vorrebbero sentire parlare. Quella della Corea del Sud, una delle famose Quattro Tigri Asiatiche di fine secolo scorso (le altre erano Taiwan, Hong Kong, Singapore), è una delle economie che in un mondo di scambi aperti hanno prosperato. Ma ce ne sono molte altre – emerse di recente, emergenti, sul punto di decollare oppure arretrate e povere – che hanno bisogno di un mondo aperto.

Chi non vuole schierarsi

Questi Paesi temono che la loro crescita sia ostacolata dai muri che i blocchi regionali stanno alzando. E non vorrebbero essere obbligati a scegliere tra – per dire – Stati Uniti e Cina se lo scontro tra le due potenze si radicalizzerà ulteriormente. Quando le tensioni geopolitiche diventano acute e si va verso blocchi politici ed economici contrapposti, i Paesi intermedi, desiderosi di non allinearsi con uno o con l’altro, sono sottoposti a tensioni interne per schierarsi.

Lo scorso agosto, per esempio, la leader della Camera dei Rappresentanti americana Nancy Pelosi compì una visita a Taipei ed ebbe colloqui con il governo di Taiwan. Uno dei grandi vecchi dell’Asia moderna, l’ex primo ministro della Malaysia Mahatir Mohamad insorse contro la «provocazione americana» (nei confronti di Pechino che ritiene Taiwan una sua provincia) e invitò i Paesi dell’Asean (l’associazione di dieci Paesi del Sud-est asiatico) ad avvicinarsi alla Cina. Che, disse, «è un partner commerciale molto buono». Al momento, l’Asean non ha intenzione di legarsi all’enorme e potente vicino. Ma non vorrebbe nemmeno legarsi agli Stati Uniti contro la Cina.

Lo stesso vale per quei molti Paesi che di fronte all’invasione russa dell’Ucraina non hanno sostenuto le posizioni americane ed europee. Nazioni non di poco peso: oltre alla Cina di Xi Jinping, l’India, il Sudafrica, in parte il Brasile, il Vietnam, la Thailandia, un buon numero di Paesi africani. Non vogliono schierarsi. Non è una riproposizione del Movimento dei Non Allineati dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale: non c’è niente di formalizzato, non c’è una regia, soprattutto non si tratta di Paesi usciti da poco da una lotta anticolonialista. Sono Paesi che negli anni della globalizzazione hanno sviluppato le loro economie, sono su una strada di crescita: rifiutano di schierarsi non per ragioni politiche e ideologiche, come in passato, ma per ragioni economiche: ritengono non sia loro interesse.

Viene da chiedersi se Stati Uniti ed Europa stiano valutando seriamente questa realtà dei Non Allineati Nuovi (Nan). Quando il presidente della Corea del Sud parla di muri, ha in mente loro, oltre alle pratiche commerciali aggressive del vicino cinese. Giustificandola con la necessità di difendere l’industria americana dalla sfida tecnologica ed economica cinese, l’Amministrazione Biden ha varato un pacchetto di sussidi che mette a disposizione 370 miliardi di dollari per le imprese americane che investiranno in settori verdi, a cominciare dalle auto elettriche. E ha stanziato un altro centinaio di miliardi per sostenere la produzione domestica di semiconduttori e per limitare l’export di alta tecnologia in Cina.

Rischi di default

L’iniziativa della Casa Bianca è stata definita anti-competitiva e protezionista dall’Unione europea: teme che le imprese della Ue siano attratte dai sussidi americani e investano negli Stati Uniti. La risposta è in elaborazione ma l’indirizzo, sostenuto massicciamente da Parigi e Berlino e non disdegnato da Roma, è di rispondere allo stesso modo, con sussidi alle imprese europee, probabilmente tramite un fondo europeo.

Un accordo Washington-Bruxelles per evitare una guerra commerciale transatlantica può essere trovato: un tavolo di confronto è aperto. Resta il fatto che sulle due sponde dell’Oceano Atlantico si tende a creare fortezze – siano esse due o una comune – a suon di sussidi pubblici. Sono i muri di cui parla Yoon Suk-yeol. Chi resta fuori non ne sarà felice: oltre ai Nan, Paesi alleati dell’Occidente come il Giappone, la stessa Corea del Sud, Taiwan, Australia, Nuova Zelanda e via dicendo chi non è né americano né europeo.

È una situazione preoccupante di lungo periodo per Paesi che nell’apertura dei commerci e degli investimenti hanno trovato la via per ridurre la povertà. Sul breve, tra l’altro, molti di essi soffrono già ora dei blocchi agli scambi causati dalla guerra in Ucraina, dei prezzi alti dell’energia e degli alimentari, del dollaro rafforzato e dei tassi d’interesse sul loro debito. La managing director del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, ha di recente detto che il 15% dei Paesi più poveri è in crisi da debito e il 45% rischia di finirci. Zambia, Ghana e Sri Lanka sono già in default. Non siamo al cane mangia cane. Ma protezionismi, muri e blocchi regionali non aiuteranno a evitare di arrivarci.

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