Economia

Sanzioni, il paradossale caso della venezuelana Citgo

Un esempio di come l’imposizione di misure economiche punitive possa avere conseguenze diverse dagli obiettivi dichiarati

Occhi puntati sul petrolio venezuelano dopo lo scoppio della guerra in Ucraina
(Keystone)

L’invasione dell’Ucraina è stata affrontata dall’Occidente con una escalation di sanzioni. C’è chiaramente l’intenzione di colpire un atto di aggressione, ma anche la speranza di forzare un regime change, alimentando uno scontento diffuso. Attenzione, però, che come tutte le cose anche le sanzioni possono avere conseguenze diverse dagli obiettivi dichiarati, e questo vale persino per provvedimenti all’apparenza «chirurgici».

Val la pena ripercorrere un episodio paradossale, che riguarda un altro Paese colpito da sanzioni Usa, il Venezuela di Chavez e Maduro. In Oklahoma, sul suolo statunitense, c’è una raffineria, CITGO, che fu acquistata dal governo venezuelano nel 1986 (ben prima dell’involuzione chavista, il presidente era Jaime Lusinchi) per affrontare più agevolmente la vendita di petrolio nel mercato americano.

Il caso

Con l’arrivo di Hugo Chavez e del ‘socialismo del ventunesimo secolo’, arrivano, per quanto scaglionate nel tempo, tutta una serie di nazionalizzazioni. Nel 2008, una coinvolge, letteralmente, una miniera d’oro nello stato Bolivar, con riserve stimate a 500 tonnellate. L’azienda espropriata è canadese, Crystallex e reagisce rivolgendosi a un tribunale americano. Dopo dieci anni, le viene riconosciuto un indennizzo di 1,4 miliardi di dollari.

Per ottenerlo, può rivalersi su CITGO, che è il maggior asset venezuelano nel Paese. In pratica potrà ottenere che l’azionista, l’impresa pubblica Petróleos de Venezuela, venda alcune quote per pagare il risarcimento (grosso modo, equivalente a un ottavo del valore stimato della raffineria). La decisione viene confermata in appello e porta altre aziende espropriate, come Conocophillips e Exxon Mobil, a seguire lo stesso iter, col medesimo obiettivo.

Importanti sanzioni

Durante la Presidenza Trump, gli Stati Uniti appaiono più volte sul punto di intervenire in Venezuela, dove l’opposizione al regime, ereditato dal delfino di Chavez, Nicolas Maduro, sembra rinata a nuova vita dopo che l’assemblea nazionale nomina Presidente Juan Guaido. Per alcuni mesi, Guaido parrebbe in grado di mobilitare la società civile venezuelana e di riportarla «per le strade», per fare sentire la propria voce in una situazione disperata nella quale l’inflazione è ormai iper, il reddito disponibile si assottiglia sempre di più, il sistema sanitario è a pezzi, il numero di prigionieri politici segnala ormai un’autentica emergenza umanitaria. Guaido non riuscirà a dare il colpo di reni e gli Usa non interverranno, spaventati dall’eventualità di una guerra di terra.

Però Trump impone sanzioni importanti, ai danni del regime bolivariano. Maduro e i suoi sgherri sono deboli nei momenti in cui il prezzo del petrolio è basso e così, per fare politiche di spesa necessarie per mantenere la presa sulla società venezuelana, emettono un bond di Petróleos de Venezuela. Come collateral utilizzano CITGO, che è negli Stati Uniti e dunque soggetta alle norme di quel Paese.

Asset da congelare

È allora che il governo ombra di Guaido chiede e ottiene dall’amministrazione Trump che, nel complesso dell’impianto sanzionatorio, rientri anche CITGO. L’azienda viene inserita negli elenchi dell’Office of Foreign Asset Control fra quelle proprietà straniere che debbono essere «congelate». Il calcolo politico era che Guaido potesse dare scacco a Maduro, riprendersi il Venezuela e ripristinare così quel minimo di rule of law che avrebbe consentito di affrontare diversamente nazionalizzazione e indennizzi. Ma non tutte le scommesse si vincono: Maduro rimane al suo posto, Guaido diventa un profeta nel deserto e oggi, con l’aumento del prezzo del greggio, nei palazzi del potere, a Caracas, si dorme fra due guanciali.

Per ora, il risultato è che i privati che speravano di ricevere un indennizzo per gli espropri maduriani sono rimasti a bocca asciutta. Le sanzioni, pensate per indurre il governo venezuelano a cedere, hanno per ora paradossalmente salvaguardato l’esito di espropri arbitrari, inferti per calcolo politico e senza rispettare nessun principio di diritto a imprese internazionali. Le cause vinte da queste ultime negli Stati Uniti e lo smembramento di CITGO avrebbero potuto impartire una dolorosa lezione a Caracas. Le sanzioni hanno ‘congelato’ il tutto.

Il paradosso

L’amministrazione Biden guarda a Maduro con maggiore benevolenza, c’è un segmento non piccolo della sinistra Usa che si è fatto entusiasmare dalla retorica bolivariana, le stesse sanzioni dovrebbero essere riviste in questi mesi anche alla luce dello scontro con la Russia. La guerra in Ucraina potrebbe preludere a un rilassamento dei rapporti. Il fatto che le politiche chaviste abbiano prodotto circa 6 milioni di rifugiati, la più grande crisi migratoria dopo la Siria, non fa più notizia.

Siamo sempre nel campo dei paradossi: aiutare il regime venezuelano a riguadagnare una certa rispettabilità internazionale, liberandolo dalle sanzioni, avrebbe l’effetto di rimettere in gioco CITGO. Un giudice di corte d’appello ha fatto sapere che, non appena sarà legalmente possibile, bisogna procedere alla sua alienazione per risarcire le imprese nazionalizzate.

Tendiamo sempre a raccontare la realtà, e soprattutto l’economia, come se fosse fatta di nessi causali lineari e semplici: una certa azione produce un certo effetto. Gli eventi tendono a sfuggire alle previsioni: un aiuto al governo parallelo per cui si parteggia può graziare il regime sgradito. Questo è ancor più vero nel caso di asset che fossero inseriti appieno nei mercati finanziari. Per compiere buone scelte, servirebbero calma e riflessione. Che spesso la politica considera lussi di cui fare a meno.

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