Mercati finanziari

La guerra ha falcidiato le azioni europee

Lo shock energetico si profila più grave di quello sperimentato tra il 1974-1980

Poche vie di uscita
(Keystone)

«Azionario europeo sempre più interessante» annunciavano verso fine febbraio gli entusiasti gestori dell’americana T.Rowe. Non erano degli sconsiderati. Le loro previsioni erano largamente condivise dai grandi investitori internazionali prima dell’invasione russa dell’Ucraina, nella convinzione che le minacce di Vladimir Putin fossero una montatura. Ed eccoli i risultati: la guerra ha falcidiato le azioni europee del 13% (ma del 17% se si considera la sola eurozona), contro il 9% dell’S&P500. Soprattutto è crollato il comparto bancario con perdite che nell’area euro hanno superato il 30%, il doppio del settore a Wall Street, con UniCredit e SocGen in caduta del 46%.

L’America, almeno fino a pochi giorni fa, aveva largamente sottovalutato le conseguenze del conflitto. E, in parte, a ragione. La carenza di gas naturale, con i prezzi schizzati dai 18 euro (per megawattora) di un anno fa ai 230 di lunedì scorso, è un problema essenzialmente europeo, in particolare di Germania e Italia che dalla Russia importano circa il 40% del loro fabbisogno. Secondo i calcoli degli analisti, il gas a 196 euro equivale a un prezzo del petrolio di 367 dollari, ovvero tre volte più delle attuali quotazioni. Impietoso il confronto con il prezzo del gas americano, che corrisponde a 83 dollari del greggio, con uno sconto del 36% rispetto al Brent (130 dollari al barile).

La stima

Proviamo a stimare l’impatto totale della bolletta energetica per la zona euro in base ai dati forniti dall’istituto Bruegel. Nella prima settimana di marzo, con il prezzo del gas attorno a 130 euro, l’Europa versava alla Russia circa 660 milioni di euro al giorno, 450 milioni più di quanto pagava prima dell’invasione dell’Ucraina. In tre mesi farebbero 41 miliardi aggiuntivi, pari allo 0,35% del Pil d’eurozona. Ma, per riportare le riserve di gas a un livello sufficiente per trascorrere il prossimo inverno, il costo salirebbe, secondo Bruegel, ad almeno 70 miliardi, contro i 12 pagati lo scorso anno, con un aggravio pari allo 0,5% del Pil. Il costo per Germania e Italia sarebbe ben più salato e sfiorerebbe l’1% del Pil. Se a questo si aggiunge che anche il prezzo del petrolio è quasi raddoppiato, passando dai 75 dollari di metà dicembre agli attuali 130, lo shock energetico si profila più grave di quello sperimentato tra il 1974-1980, quando il greggio salì in sei anni da 4,6 a 40 dollari. Queste stime sono confortate pure dall’analisi di Goldman Sachs che quantifica in uno 0,6% del Pil il sacrificio dell’eurozona per il solo caro petrolio, contro lo 0,3% di Usa e Cina, e in un altro 0,6% quello per il gas. In totale, l’Europa vedrebbe vanificata una crescita economica pari all’1,2% del Pil, mentre per Usa e Cina si tratterebbe di una modesta limatura dello 0,3%, e sempre ammesso che le cose non vadano peggiorando. Ovviamente il costo risulterebbe più alto per Germania e Italia. A ciò andrebbero aggiunte le conseguenze delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente alla Russia. E, benché le esportazioni europee verso quel Paese siano piuttosto contenute (quelle italiane sono meno dell’1,5% del totale), il costo economico complessivo di questa guerra potrebbe rivelarsi ancor più grave per l’eurozona: S&P Global lo quantifica in una minor crescita dell’1,2% per l’eurozona (ma -1,4% per Italia e Germania); Carmignac fino a un 2% di Pil e l’1,7% d’inflazione aggiunta. Per gli Stati Uniti le conseguenze sarebbero quasi trascurabili, ma, come sottolinea Zoltan Pozsar del Credit Suisse, «se si pensa che possiamo imporre sanzioni che rendano massimo il costo per la Russia e minimo il rischio finanziario dell’Occidente, allora possiamo anche credere all’esistenza degli unicorni».

Lo spauracchio della stagflazione (crescita stagnante e alta inflazione), tante volte agitato strumentalmente dagli operatori a ogni stormir di fronda, potrebbe questa volta rivelarsi concreto. Bank of America, che ipotizza il prezzo del petrolio volare fino a 200 dollari nel peggior scenario, sostiene che la guerra porta di per sé inflazione e stagflazione. Goldman, osservando l’indice delle materie prime, cresciuto di oltre il 30% da inizio anno, avverte che i rischi di stagflazione sono davvero seri. E Carmignac, prospettando il potenziale fallimento di parecchie società e persino del Tesoro russo, teme addirittura un effetto domino su altri Paesi. Algebris ne è convinta e Morgan Stanley parla già di «default come in Venezuela»: addirittura default imminente, secondo Fitch. In verità, sostiene Pozsar, siamo già ai «prodomi di una classica crisi di liquidità». Con i titoli di Stato russi che hanno perso oltre tre quarti del loro valore e con le commodity date e ridate a garanzia dei finanziamenti, cresce il rischio di una crisi finanziaria.

Lo scenario attuale ci riporta all’autunno del 1998, quando il crac del fondo Ltcm, combinato con il fallimento del debito russo, provocò uno scossone che fece perdere a Wall Street quasi il 20% in poco più di un mese. A «salvare il mondo», come amavano raccontare gli operatori finanziari, in realtà semplicemente a salvare le borse, fu Alan Greenspan, l’allora presidente della Fed che, tagliando i tassi di 75 centesimi, riportò i mercati alla consueta esuberanza: quella che 18 mesi più tardi li fece tuttavia schiantare sotto il peso di una bolla che non si vedeva da tempo. Adesso, di tagliare i tassi, che sono già a zero, non se ne parla, ma le banche centrali possono ancora dar prova del loro potere taumaturgico: la Fed diluendo le prospettate strette monetarie; la Bce dilazionandole il più possibile. Ed è soprattutto per questo che le borse, mercoledì scorso, con rialzi a dir poco stupefacenti, sono tornate a sognare che tutto ritorni come prima.

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