Economia

Quanto violenta sarà la svolta monetaria della Fed?

Il temuto rialzo dei tassi di interessi negli Stati Uniti lascia intravedere scenari più o meno preoccupanti

(Keystone)

Non era ancora iniziata la seduta di Wall Street, quando Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan, oltre ad annunciare i poco lusinghieri risultati trimestrali della sua banca, aggiunse una ferale predizione: la Fed potrebbe «alzare i tassi d’interesse sei o sette volte» quest’anno. A New York era la mattina di venerdì 14 gennaio. Qualche minuto dopo, il titolo aprì in calo di oltre il 6% e sul mercato obbligazionario il rendimento del Treasury a 10 anni era volato in un attimo all’1,77%, il massimo dal gennaio 2020, prima che la pandemia sconvolgesse tutti i mercati finanziari. Se fosse vera la previsione di Dimon, il Fed Fund sarebbe oltre l’1,5% a fine anno, e rendimenti così bassi come quelli espressi dai titoli di Stato americani non sarebbero più giustificati, hanno pensato gli operatori. Pochi giorni dopo, il Treasury era infatti già più alto, ma anche quota 1,85% non sarebbe appropriata con una Fed che si mostra così aggressiva.

Supponiamo d’essere meno pessimisti di Dimon, immaginando quattro rialzi dei tassi quest’anno e altri due o tre nel prossimo, cosicché ci dovremmo trovare il tasso Fed all’1,88% a fine 2023. Ma non basta, spiega Jim Reid di Deutsche Bank, perché la liquidazione dei titoli acquistati nel quantitative easing, prevista dopo luglio, equivale a un’ulteriore stretta monetaria: per la precisione, una contrazione dell’attivo della banca pari a 650-700 miliardi avrebbe lo stesso effetto di un rialzo dei tassi di 25 centesimi. E, siccome entro il 2023 la Fed dovrebbe liquidare, secondo Reid, circa 3 mila miliardi, è come se avesse alzato i tassi di un altro punto percentuale. In totale saremmo al 2,9% circa e il Treasury decennale, se davvero funzionasse la stima di Morgan Stanley (secondo la quale 100 miliardi sottratti all’attivo della Fed equivalgono a 4-6 punti base di rialzo per il Treasury), dovrebbe finire quantomeno tra il 3,5 e il 4%.

Interpretazioni non concordanti

Va da sé che le conseguenze sarebbero nefaste, più per i mercati che per un’economia presunta ancora in buona salute. La Borsa di Wall Street, che 10 giorni fa aveva così paradossalmente snobbato il dato dell’inflazione salita al 7%, subirebbe un forte scossone, tanto più con valutazioni di 22 volte gli utili, giustificabili a mala pena con tassi quasi a zero. I forti ribassi dell’S&P 500 visti all’inizio della settimana scorsa sarebbero solo una prima avvisaglia di quanto potrebbe accadere nei prossimi mesi. Un indice in caduta sarebbe la ragionevole conseguenza di un così repentino cambiamento della politica monetaria americana e l’illusione che i mercati d’Eurozona possano restare quasi immuni, perché meno sopravalutati, perché la Bce non seguirebbe la strada della Fed e perché le nostre economie, meno sussidiate degli Stati Uniti, hanno ancora spazio per riprendersi, si rivelerebbe vana. Ma non è detto che la svolta monetaria della Fed sarà così violenta, come suggeriscono le analisi di Deutsche Bank e Morgan Stanley.

Se quest’ultima pare crederci davvero, la banca tedesca ammette che il ragionamento è puramente teorico: crede invece che l’attivo della Fed «dovrà crescere ancora nei prossimi anni, poiché l’istituto sarà costretto a ricorrere nuovamente alla repressione finanziaria per far sì che il crescente peso del debito pubblico sia sostenibile». Nell’arco di 18 mesi, Jerome Powell potrebbe anche alzare i tassi fino all’1,5%, sostiene Jeffrey Gundlach di DoubleLine (il maggior fondo obbligazionario al mondo), ma poi dovrà far marcia indietro vedendo crollare il mercato azionario e materializzarsi il rischio di una pesante recessione. Altri gestori di hedge fund sono ancor più pragmatici, perché dopo 13 anni di quantitative easing hanno ben compreso che l’economia (e i mercati) non possono crescere senza stimoli monetari: quattro rialzi in tutto sarebbero fin troppi. Per questo il rendimento del Treasury non potrà salire tanto in alto e i più lo vedono al 2% per fine anno, al massimo al 2,3% secondo Morgan Stanley.

Solo una tregua

Si fa strada la sensazione che l’attuale buon momento dell’economia sia solo una tregua, una felice contingenza generata dagli straordinari stimoli monetari e fiscali elargiti per fronteggiare la pandemia. Una volta che questi si saranno esauriti (BofA calcola che gli aiuti alle famiglie americane si ridurranno a 660 miliardi quest’anno dai 2.800 del 2021), l’economia riprenderà l’incerto passo del trascorso decennio e anche il balzo dell’inflazione si rivelerà un fuoco di paglia. S’è visto come le previsioni degli economisti al servizio delle grandi banche d’investimento siano molto spesso bizzarre e volatili, dettate più dall’umore del momento che da una seria analisi. Ma anche seri studiosi, come Olivier Blanchard (ex capo economista dell’Fmi), ribadisce che tutto è cambiato negli ultimi 30 anni e che, al di là delle crisi indotte dalla finanza o dalla pandemia, restano intatti i fattori che hanno determinato minor crescita economica e ben più bassi tassi d’interesse rispetto al secolo scorso. E Larry Summers (ex segretario al Tesoro e professore all’università di Harvard) non ha dubbi che, esauriti tutti gli stimoli monetari e fiscali, l’economia ritornerà ad assumere i contorni di una «secolare stagnazione». E, se Goldman Sachs cerca di stemperare il crescente pessimismo, quantomeno per le conseguenze sui mercati azionari, Bank of America rafforza la propria tesi di un’economia destinata a scivolare nella stagflazione. Ossia stagnazione aggravata da alta inflazione.

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