Economia

Le ‘colombe’ della Fed e il dilemma dell’inflazione

Jerome Powell, presidente della Federal Reserve
(Keystone)

Si dice, e il Wall Street Journal è incline a confermarlo, che Joe Biden volesse Lael Brainard al posto di Jerome Powell alla presidenza della Fed: una che è considerata ancor più «colomba» di Powell, anzi il massimo fautore delle politiche monetarie ultra espansive e possibilmente ad oltranza. Di certo il mercato avrebbe apprezzato il gesto. Invece Powell è stato riconfermato e il mercato s’è un poco risentito, facendo salire il rendimento dei Treasury di 10 centesimi e limare l’S&P 500 di qualche punto. L’episodio è istruttivo perché ci svela quale sia la mentalità degli investitori.

Dato per scontato che costoro (alla pari di Biden o di qualsivoglia governo) vorrebbero tassi a zero per sempre e quantitative easing eterni, ne consegue che inasprire un poco la politica monetaria sarebbe adesso un errore. E siccome il mercato ha ben compreso la propria forza di persuasione, davanti a una Fed quasi sempre arrendevole, ha già decretato che l’inflazione non rappresenta un grande pericolo, perché è transitoria, più transitoria di quanto creda Powell: dunque alzare i tassi prima e più rapidamente del previsto sarebbe uno sbaglio madornale.

Un vero e proprio «errore politico», come quello che Powell si apprestava a fare sul finire del 2018, se non fosse intervenuta la pressione dei mercati (e di Donald Trump) a scongiurarlo. E così i rendimenti dei Treasury sono leggermente risaliti: al’1,65% quello del decennale, che resta comunque sotto il massimo di marzo (1,75%) e in particolare quello del titolo a 2 anni che, allo 0,65%, si ritrova 42 centesimi più alto di quanto fosse a settembre.

Il sondaggio

Troppo alto? Allo 0,65% il titolo sconta circa tre rialzi dei tassi Fed per fine 2023, una previsione in linea con la moderata visione di Goldman Sachs, ma assai distante dall’analisi di Bank of America che prevede un’inflazione persistente e una Fed ben più aggressiva. Del resto se dobbiamo credere alle instabili scommesse del mercato sui Fed Funds, quattro rialzi dei tassi sono dati quasi per certi già per giugno 2023. Il vero rischio è semmai che gli investitori stiano sottostimando l’andamento dell’inflazione e quindi la reazione della banca centrale.

Questa sensazione appare evidente osservando l’ultimo sondaggio di Bofa tra 400 grandi gestori internazionali. Il 51% di costoro s’aspetta un’inflazione in calo, contro il 37% che pensa il contrario: così suggerivano anche le stime del marzo 2020, quando l’inflazione americana era all’1,5% e non al 6,2% come ora. Ma, ancor più sconcertante è la convinzione che l’inflazione sia un evento transitorio, come dichiarato dal 61% degli intervistati contro il 58% del mese scorso. Il paradosso è che più sale l’indice dei prezzi, più matura la convinzione che il fenomeno sia temporaneo. Transitoria è stata creduta l’inflazione a marzo, quando l’indice aveva sorpreso, crescendo del 2,6%: e ci poteva stare. E temporanea è stata giudicata man mano che l’indice balzava sopra il 4%, sopra il 5% e sopra il 6%.

Otto mesi di prezzi al rialzo, ben sopra l’obiettivo della Fed (circa il 2%), non hanno scalfito la dogmatica convinzione di un’effimera fiammata inflattiva. Intendiamoci: prima o poi la tendenza si smorzerà, ma credere che il prossimo anno l’inflazione sia destinata a tornare ai livelli pre Covid (sotto il 2%), con una crescita economica prevista più sostenuta di quella vista nel precedente decennio, è poco razionale.

Oltre la temporaneità

Bofa stima un aumento generale dei prezzi del 4,6% nel 2022, Goldman Sachs è forse ancor più severa pronosticando un’inflazione core (depurata da energia e alimentari) al 3,6% il prossimo anno e al 2,6% nel 2023: in ogni caso ben sopra l’obiettivo della Fed e ben oltre il concetto di temporaneità. E allora quale sarebbe questo errore di politica monetaria da imputare alla Fed? Proprio l’opposto di quanto pensa il mercato, sostiene Mohamed El-Erian, capo economista di Allianz, perché una banca centrale troppo timida nell’alzare i tassi si vedrà costretta a tirare bruscamente il freno più avanti, con gravi conseguenze sui mercati e sull’economia. Certo, una parte dei fattori che hanno finora contribuito al balzo dei prezzi verrà meno nel corso dei prossimi anni, ma altre concause (crescita dei salari, la parabola discendente nel processo di delocalizzazione e le stesse difficoltà nel sistema degli approvvigionamenti, già percepibili prima della pandemia) sono destinate a perdurare.

Si potrebbe obiettare che le aspettative d’inflazione provenienti dai vari sondaggi e dai prezzi sui mercati finanziari indicano uno scenario meno preoccupante. Ma sono assai poco attendibili, risponde El-Erian: perché in buona parte autoreferenziali (ovvio se si sposa la tesi delle banche centrali di un’inflazione transitoria) e perché i prezzi sui mercati obbligazionari sono viziati dalla presenza di un solo grande compratore: la Fed. Va da sé che ogni previsione sull’andamento delle borse e dei bond il prossimo anno deve fare i conti con l’incognita inflazione e già si stanno cimentando i grandi broker nel formulare le stime più disparate a seconda degli scenari ipotizzati.

Di queste analisi si renderà conto nei prossimi numeri. Intanto, una nota di relativo ottimismo riguarda proprio l’Eurozona e pare essere condivisa dalla maggior parte delle case d’investimento. Da noi l’inflazione è ben più bassa che in America: resterà sopra il 2% il prossimo anno, dicono gli analisti di Bofa, ma scenderà nel 2023. E questo darà maggior forza ai nostri mercati azionari che faranno meglio di Wall Street. E, questa volta, concorda pure Goldman Sachs.

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