Sulla Croisette

Quello che il cinema può raccontare

‘Rebel’ dei belgi Adil El Arbi e Bilall Fallah sconvolge. Chiudono ‘Showing up’ di Kelly Reichardt  e ‘Un petit frère’ di Leonor Serraille, convincendo.

Da sinistra, Ahmed Sylla, Annabelle Lengronne, Stephane Bak, Milan Doucansi (davanti), Sidy Fofana, Kenzo Sambin e la regista Leonor Serraille, alla prima di ’Un petit frère’
(Keystone)

Giornate ancora piene di cinema sulla Croisette, in attesa di un Palmares che mai come quest’anno sembra indeciso. Eppure due sono i film che in fondo meriterebbero la Palma d’Oro: ‘Tori et Lokita’ dei fratelli Dardenne e ‘Les Amandiers’ di Valeria Bruni Tedeschi. Ma ogni giuria ha il suo metro di misura, così come succede anche nelle riviste per ogni film, e qui in Francia hanno fatto scalpore i giudizi diversi sul film ‘Nostalgia’ di Martone delle due più prestigiose riviste di cinema ‘Cahiers’ e ‘Positif’: la prima ha dato una stella al film, l’altra addirittura la Palma d’oro, oltre le stelle. È chiaro che ognuno ha le sue opinioni, ma esiste una grammatica del cinema, come per una lingua, ed esistono delle regole da rispettare, anche per chi fa il critico. Non è un dire: mi piace.

In questa giornata, comunque, è successo che il film che ha più colpito, sconvolto, critica e pubblico sia stato ‘Rebel’, dei belgi Adil El Arbi e Bilall Fallah, passato nella sezione Mezzanotte, si dice perché montato troppo tardi per entrare in un concorso che avrebbe sbaragliato. Un film che riesce a ridicolizzare anche un ‘West Side Story’, perché è un musical realistico, perché è una feroce disamina sociale, perché è il più violento attacco alla criminalità del fondamentalismo islamico, perché è il più dolente canto d’amore a una madre, una pietà sacra del nostro tempo, con lei che abbraccia urlando il figlio che ha ucciso il fratello. Un film che racconta la cattiveria del male cui nessuno può sfuggire.

Una lezione di storia e di vita

Siamo a Molenbeek, il triste luogo belga dove l’estremismo islamico la fa da padrone e dove gli imam, non inebetiti dal fanatismo, hanno il loro daffare per impedire la totale radicalizzazione del territorio. Qui i registi ci fanno incontrare una piccola famiglia senza un padre, mantenuta dalla madre Leïla (una indimenticabile Lubna Azabal) che è una donna delle pulizie. Qui incontriamo il suo figlio maggiore Kamal (lo straordinario Aboubakr Bensaihi) che, inseguito dalla polizia per un caso di droga, decide di lasciare Molenbeek per recarsi in Siria per partecipare a operazioni umanitarie. Ma è presto rapito e reclutato dallo Stato Islamico; per non partecipare ai combattimenti, vanta le sue conoscenze di esperto video; viene mandato a Raqqa, dove diventa un cameraman per i video di propaganda di Daesh e dove viene sposato con una giovane schiava siriana. Con lei matura un rapporto di reciproca e non violenta conoscenza, ma tutto cambia quando lo costringono a uccidere per non essere ucciso e quando rapiscono la sua sposa per darla una notte a un eroe. Lui che aveva conservato vergine quel fiore, esplode in un odio totale verso tutto quel mondo cui si era gettato tra le braccia.

Intanto a Molenbeek suo fratello dodicenne, Nassim (Amir El Arbi), circuito da un gruppo di fondamentalisti, si radicalizza e a nulla valgono le domande alla società da parte di una madre intimorita di perdere il figlio. Nassim parte anch’egli per la Siria, mentre il fratello, dopo aver tentato una fuga con la sposa ed essere riuscito a farla fuggire, viene torturato in maniera orribile e condannato a morte. Ucciderlo sarà la prova per Nassim di essere degno di stare nella jihad. Un bombardamento colpisce la loro base; gravemente ferito, viene operato e salvato dalle truppe internazionali. Qui lo raggiunge la madre per riportarlo in Belgio, dove il bambino mantiene un mutismo totale, fino alla terribile rivelazione alla madre. Il film ha una serie di scene di commedia musicale, al ritmo di rap e canzoni arabe. Scene molto suggestive, coreografate dal grande ballerino di Anversa Sidi Larbi Cherkaoui. Inutile dire degli applausi. Resta un grande film d’azione, una lezione di storia e di vita, un dolente canto contro la malvagità degli uomini.

Commedia umana

In competizione tre film imperfetti, di cui il migliore, per noi, è ‘Broker’ di Hirokazu Kore-eda, una storia di crimine e compassione che narra di una famiglia alternativa coreana che cerca una casa per un bambino abbandonato. Un pezzo corale che inizia lentamente prima di essere costantemente trascinato dal suo dolce motore di film di strada. Tutto inizia sotto la pioggia, con la giovane donna So-young (Lee Ji-eun) che appoggia il suo fardello al ‘baby box’ della Chiesa della famiglia Busan. È suo figlio e subito, pentita, lo va a riprendere con fatica. Intorno al bambino e a So-Young si associano i vari personaggi: un duo che vede il bambino come una fonte di guadagno, un bambino scappato dall’orfanotrofio e due poliziotte che cercano di prendere in flagrante i due uomini nel momento in cui venderanno il bambino. La commedia umana lentamente assume toni di grande dolcezza affettiva, fino a una conclusione che è bello scoprire. Kore-eda ha un’incrollabile leggerezza del tocco, un modo d’iniettare veridicità emotiva e spontaneità in ogni momento, e anche un’opera di secondo livello come questa riconferma il regista come una voce essenziale.

En passant

Dal Belgio, ancora, in competizione ‘Close’ di Lukas Dhont, un film che nei corridoi è passato come possibile vincitore per un motivo particolare, perché altrimenti il suo destino è quello di sparire. Il fatto è che in questa opera, formalmente ben diretta, resta troppo formalismo, quasi una paura di dire. Sullo schermo troviamo Léo, un ragazzo di 13 anni che vive in un idillio rustico con il suo migliore amico Rémi. La famiglia di Léo gestisce una fattoria di fiori, tra loro nasce un sentimento che non si esprime e a scuola; nonostante i compagni se ne accorgano, nessuno li bullizza. Ma succede che proprio Léo si trovi a disagio e lentamente si allontani dall’amico, scegliendo di unirsi a una squadra di hockey su ghiaccio; dopo una gita al mare, scopre dalla madre che Remi "non è più qui". Il racconto di Dhont è un po’ ripetitivo e non è particolarmente innovativo, ma il film, pur piccolo, si vede fino in fondo.

Annoia invece, sempre in competizione, ‘Pacifiction’ di Albert Serra, una storia ambientata sotto il sole di Tahiti, parte della Polinesia francese, dove ancora non si è spento l’eco delle esplosioni nucleari e altre si paventano all’orizzonte. Nessuna paura, non è un film ambientalista, ma la storia di uomini decadenti e di una civiltà locale purtroppo ormai corrotta. Restano le splendide immagini in scene superbamente composte, in particolare quella delle grandi imbarcazioni che portano i surf dei surfisti dove enormi onde giungono lontano dalla riva e queste grandi barche goffe e pesanti ne affondano di incredibilmente alte: uno spettacolo davvero surreale. Ma non basta, in concorso ci aspettavamo di più.

Da Palma d’oro

E i due film che hanno chiuso la competizione si sono resi degni di questa. ‘Showing up’ di Kelly Reichardt e ‘Un petit frère’ di Leonor Serraille, non a caso due registe. La prima porta sullo schermo una strana storia di una scuola d’arte, di una famiglia disfunzionale ma soprattutto di un piccione che, ferito dal gatto della protagonista, diventa il leitmotiv dell’intero film giocato su momenti d’arte, opere varie, un mondo a parte che la regista porta in primo piano. Non un mondo bohemien, piuttosto un mondo che impara un artigianato artistico per cercare di sublimarlo in possibili opere d’arte. Il film scivola facilmente come il fumo di una sigaretta, lasciando quel dolce odore intorno.

‘Un petit frère’ di Leonor Serraille è invece un film più complesso. È la storia di Rose, che arriva nella banlieue parigina con i due figli Jean et Ernest; arriva dalla Costa d’Avorio, dove ha lasciato altri due figli, un marito morto e un altro abbandonato. Il film è diviso in tre capitoli, dedicati a ognuno dei tre personaggi. Nel primo scopriamo una donna insoddisfatta che cerca amore in ogni uomo che trova; nel secondo troviamo l’irrequieto Jean incapace di trovare pace, e nonostante una dolce ragazza cerchi di stargli vicino, abbandonerà la scuola e finirà nel giro della droga (per non finire in carcere ritornerà nel paese d’origine). Il terzo è dedicato a Ernest, che diventerà professore all’università. È lui che dall’inizio ha raccontato la storia, è lui che rimpiange il fratello e commisera quella mamma ancora alla ricerca di amore. E se fosse questa la Palma d’oro nessuno avrebbe nulla da contestare.

Il lavoro è della giuria, 24 i film in concorso, ardua una scelta che non convincerà molti, come sempre. Un festival del cinema non è un gran premio con un vincitore visibile perché è arrivato primo.

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