laR+ L’immagine e la parola

Michelangelo Frammartino e le frontiere del cinema

Dal laboratorio di regia al film ‘Il buco’, intervista al regista italiano ospite a Locarno

(LUCKY RED)
11 marzo 2022
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Si apre oggi la nona edizione di L’immagine e la parola, l’evento primaverile del Locarno film festival: tra gli ospiti di questi due giorni il direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera, che oggi alle 18.30 dialogherà con il direttore di Locarno Giona Nazzaro; Kevin B. Lee, professore per il futuro del cinema all’Usi con una masterclass sull’impatto di Netflix oggi alle 14 eil regista Stefano Knuchel che domenica pomeriggio presenterà, dopo un incontro con il fumettista Bepi Vigna, il suo ‘Hugo in Argentina’. Ma l’ospite d’onore è il regista Michelangelo Frammartino che, questa sera, presenterà in anteprima svizzera il suo film ‘Il buco’ – un documentario che, avvalendosi della fotografia del ticinese Renato Berta, anche lui ospite, unisce le profondità di una grotta in Calabria alla vita rurale di montagna ai grattacieli milanesi – e soprattutto terrà la Spring Academy con 12 giovani filmmaker che, per una decina di giorni, realizzeranno alcuni cortometraggi che saranno poi proiettati durante il festival.

Frammartino, da dove nasce l’idea di ‘Il buco’?

È iniziato dall’esperienza della grotta, dall’esperienza della speleologia che ho iniziato nel 2013, un po’ per gioco, su insistenza di un amico, Nino La Rocca, sindaco del paesino dove ho girato ‘Le quattro volte’. Lui aveva molto insistito perché visitassi una grotta insieme a lui e così c’è stato il mio battesimo speleologico ma devo essere sincero: quella mia prima discesa in grotta è stata interessante ma ho pensato che se c’è un posto dove non si possono fare film, è quello. Non c’è luce, non c’è vegetazione, non c’è niente. Ho pensato che quel questo posto non mi riguardasse e invece no, qualche anno dopo mi sono accorto che io a quello spazio continuavo a pensarci e quindi ho voluto tornarci, ho voluto provare altre grotte.
È una dimensione è molto affascinante: ormai le grotte sono l’unico spazio in cui si fa l’esperienza della frontiera, quell’esperienza che una volta facevano gli esploratori che partivano per regioni sconosciute. Nella grotta esiste ancora la possibilità di posare il piede dove nessun uomo l’ha messo prima. Ho iniziato a pensare che questa cosa avesse a che fare con una serie di frontiere importanti per il cinema: il visibile e l’invisibile, il campo e il fuoricampo, la luce e l’ombra.

C’è un forte contrasto, visivo e anche sonoro, tra la grotta e l’ambiente rurale in superficie e poi le città con i loro grattacieli.

Io ho investito su quella grotta in particolare, l’Abisso del Bifurto che si trova nel cuore del Pollino, perché è stata esplorata da questi speleologi piemontesi, che ho incontrato personalmente, agli inizi degli anni Sessanta – gli anni in cui mio padre e mia madre, calabresi, se ne venivano su a Milano: ci sono tante frontiere… È il momento delle grandi speranze, del boom economico, degli elettrodomestici, della televisione, dell’automobile: questa dimensione di crescita, di luce, di benessere per me diventava molto interessante nel contrasto con l’oscurità e gli abissi. Il fronteggiarsi di luce e buio quando la luce è particolarmente splendente, come la si raccontava in quegli anni, fa sì che questa frontiera sia ancora più marcata.

Il buio e il silenzio della grotta, la vita rurale in montagna, la modernità della città… non l’ha mai spaventata l’idea di fare un film così simbolico, così allegorico?

Sì, mi spaventava come mi spaventava il fare un film d’epoca. Di solito come filmmaker vengo ascritto al cinema del reale e ovviamente se fai un film in costume devi ricostruire tutto, il che è un po’ il contrario del cinema del reale in cui ci si appoggia all’esistente. Però devo anche dire che c’è una dimensione potentissima della materia nel realizzare un film in quel territorio, su quei pascoli, su quella montagna, con quegli animali, con quei pastori e poi girarlo veramente dentro l’Abisso del Bifurto, cosa che ci è costata una fatica immane.
Questa dimensione fortemente materica mi ha dato il coraggio di osare questo percorso: è vero che ci sono dimensioni allegoriche ma sono costruite su una materia che non è addomesticabile, alla quale non è facile far dire quello che vuoi.

Ne ha accennato: girare nella grotta è stata una fatica immane.

Sì, è stata una grandissima sfida, girare là sotto. Per me ha richiesto anni di esperienza solo per trovare la tranquillità necessaria: il primo anno non avrei mai potuto girare un film in una grotta, c’è voluto tempo per superare la vertigine, la verticalità, le strettoie, il buio. Superato il problema personale, si è trattato di costruire una troupe, di attrezzarla, di allenarla, di costruire dei dispositivi, di stabilire un piano di sicurezza, già solo trovare un’assicurazione per il set è stato un lavoro molto complicato, per il produttore.
Nei punti di maggior profondità impiegavamo tre o quattro ore per scendere, altre ore per cablare e mandare in superficie il segnale, e poi la risalita… capitava che con 16 o 17 ore di lavoro, girassimo lì sotto appena tre quarti d’ora.

A Locarno arriverà per ‘Il buco’, ma soprattutto per la Spring Academy. Cosa ci può dire?

L’insegnamento è sempre stata una parte importante del mio percorso: sono convinto, non so se a torto o a ragione, che insegnare e fare film siano entrambi modi per raggiungere gli altri. E poi, lo confesso, imparo sempre più io dai miei allievi che gli allievi da me.
L’invito è arrivato da parte del festival in cui sono cresciuto come spettatore – Locarno è stato il mio festival, d’estate salivo da Milano e dormivo in campeggio, a volte anche in auto – e dove ho presentato il mio primo lungometraggio: come potevo dire di no?

Che tipo di lavoro svolgerà con i partecipanti?

In questo laboratorio c’è una coerenza con il tipo di ricerca che a me interessa, perché ‘Il buco’ l’ho fatto perché trovavo una forte attinenza tra una squadra che si immerge nel buio della montagna e gli spettatori che si immergono nel buio della sala.
Il titolo della Spring Academy è scherzosamente ‘Let’s make something!’ che sembra un po’ quello che mi diceva sempre mia mamma, "fai qualcosa!", ma in realtà è una sfida a fare qualcosa, a creare un‘immagine che abbia l’ambizione di essere una cosa e che non resti un "fantasmino". Uno dei primi esempi che farò saranno i quadri di Jasper Johns, come ‘American Flag’ o ‘Target’: la bandiera americana rappresenta la bandiera americana ma è anche una bandiera americana, è un’immagine ma anche una cosa; lo stesso per i bersagli, i ‘target’: rappresentano un bersaglio ma volendo, con quei quadri, potremmo anche giocarci a freccette. Detto così è un po’ sbrigativo, ma l’ambizione è quella.

Come sarà strutturato il laboratorio?

Faremo un paio di "lezioni" in cui ragioneremo insieme su cosa possa significare quella consegna "Let’s make something!", poi avranno il tempo di guardarsi attorno, anche se chiederemo loro di non allontanarsi troppo da Locarno: l’altra volta con Béla Tarr, gigante del cinema contemporaneo, il territorio era più ampio ma il maltempo aveva dato molti problemi.
Poi ognuno dei partecipanti, una volta individuato il modo di mettere in atto questa scommessa, avrà un paio di giorni per le riprese, in modo da riuscire a realizzare qualcosa nei tempi del laboratorio.

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