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Nel labirinto delle illusioni di Guillermo del Toro

Dopo ‘La forma dell’acqua’, ‘La fiera delle illusioni’ conferma che il cineasta messicano è uno dei maggiori registi contemporanei

(Searchlight Pictures)
3 febbraio 2022
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Un uomo si allontana da una casa in fiamme. Tutto intorno, una distesa di campi su cui non cresce più nulla. L’uomo avanza, senza mai voltarsi, mentre la casa, sullo sfondo, sempre più si consuma e scompare fra le fiamme. Potrebbe essere la scena conclusiva di un film d’azione: la celebrazione dell’eroe che, lasciandosi dietro un mucchio di macerie, avanza trionfale verso gli spettatori.

Quella che sto raccontando però non è una scena finale, e non figura neppure in un film d’azione dall’alto contenuto esplosivo. Si tratta, piuttosto, della scena di apertura di ‘Nightmare Alley’ (‘La fiera delle illusioni’) l’ultimo lungometraggio del pluripremiato regista messicano Guilllermo del Toro. Il personaggio che vediamo avanzare non è un eroe. All’inizio del film noi non sappiamo ancora nulla di lui, e dopo la scena iniziale in cui si allontana dalla casa, lo ritroviamo mentre si aggira fra i tendoni di una di quelle fiere itineranti d’altri tempi che combinano attrazioni illusionistiche, numeri circensi, e mostruosità varie. Nei primi dieci minuti l’uomo non pronuncia parola, e questo non ci aiuta a capire chi è, cosa vuole, e dove sta andando. Si limita ad aggirarsi, incuriosito, fra le attrazioni della fiera. Il proprietario però lo nota e intuisce che sta cercando qualcosa: per questo gli offre un lavoro, che l’uomo accetta.

Integrandosi rapidamente nel suo nuovo ambiente, l’uomo si dimostra abilissimo nell’imparare i trucchi del mestiere, rivelando un insolito talento proprio nella specialità in cui la fiera eccelle: creare illusioni manipolando la percezione dei visitatori. Stan – questo è il nome del personaggio, interpretato da un ottimo Bradley Cooper – però non è solo un abile prestigiatore, è anche un ambizioso imprenditore. Perciò, dopo aver dato il suo contributo alla fiera itinerante, decide di mettersi in proprio. L’avventura, e il cammino del nostro personaggio, ripartono: destinazione New York.

Illusione e realtà: un equilibrio fragile

Il fatto che il personaggio di Stan nei primi dieci minuti non spiccichi parola, è già di per sé rivelatore che ‘La fiera delle illusioni’ non è il solito prodotto hollywoodiano: è un film misurato, con un ritmo narrativo e delle geometrie interne calibratissime. A conferma di tutto ciò, e a testimonianza che il film, senza bisogno di strafare, sia anche coraggioso (e non stiamo parlando di un regista alle prime armi), basterebbe ricordare che il secondo personaggio centrale della storia – la psicologa Lilith Ritter, interpretata da una brillante Cate Blanchett – entra in scena a metà film. Una scelta per nulla casuale, che conferisce centralità al personaggio della psicologa, vero e proprio perno attorno a cui prenderà forma la seconda svolta decisiva del protagonista, che nel frattempo a New York si riconferma abile prestigiatore facendosi conoscere come The Great Stanton. Succede che Stan e l’elegante Lilith, dopo un primo incontro apparentemente casuale e ricco di tensione, si rivedono e uniscono i loro talenti e la loro smisurata ambizione.

La posta in gioco di questa inedita collaborazione si annuncia molto alta, non solo in termini economici, anche in termini personali. Tanto l’illusionista Stan che la psicologa Lilith affideranno al potere dell’illusione, dell’inganno e della manipolazione, le sorti delle loro imprese. E l’illusione, si sa, è tanto più efficace quando pensiamo che sia reale, ma non solo: la propensione ad affidarci all’illusione fa parte del corredo culturale degli esseri umani. Non è poi così sorprendente, allora, scoprire che oggi come ieri ci muoviamo in un mondo in cui l’illusione si intreccia in modo subdolo alla realtà. La forza e la sensibilità registica del film di Guillermo del Toro stanno proprio nella capacità di portare sullo schermo delle storie di personaggi fin troppo comuni, dalle cui vicende personali emergono però la complessità e l’ambivalenza che si nascondono fra le pieghe dell’apparenza. Attraverso una narrativa orchestrata in modo estremamente equilibrato, ‘La fiera delle illusioni’ ci rivela che l’intimo intreccio fra la realtà e l’illusione, fra la comunicazione e l’inganno, fra la verità e la credenza, attraversa la vita di ognuno di noi. E che, se la linea di confine fra realtà e illusione è spesso labile e potenzialmente cangiante, giocare troppo con le illusioni può essere pericoloso.

E non è un caso che sia proprio un regista, e un film, a ricordarci tutto questo. Al cinema, avvolti dall’oscurità della sala, le immagini proiettate sullo schermo ci conducono sulla via del sogno. Proprio per questo, grazie al potere immersivo che lo avvicina all’esperienza onirica, sin dall’inizio la settima arte è stata definita una “fabbrica dei sogni”. Come ci ricordano Edgar Morin nel suo saggio ‘Il cinema o l’uomo immaginario’ e Christian Metz ne ‘Il significante immaginario’, il medium cinematografico ha la comprovata capacità – che caratterizza anche i due protagonisti del film di del Toro – di rendere reale l’illusione, e di avvolgere la realtà nella finzione. Un duplice movimento che va dalla realtà alla finzione e dalla finzione alla realtà, che è proprio anche della vita. Perché, in fondo, il cinema imita la vita, e a volte succede persino il contrario.

Per un regista che ha vinto quattro Oscar e il Leone d’oro con il precedente ‘La forma dell’acqua’, non deve essere per forza semplice proseguire indisturbato sulla propria strada. Ciò significa realizzare un film che, come minimo, non deluda le aspettative, compito tutt’altro che scontato. Nel caso del regista messicano, l’impressione è che l’operazione sia andata in porto con pieno e meritato successo. Da notare anche, oltre ai già citati Cooper e Blanchett, un cast di assoluto spessore con attori quali Toni Collette, Willem Dafoe, Richard Jenkins, Rooney Mara, Ron Perlman e David Strathairn.

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