laR+ L'intervista

Davide Van De Sfroos, a Lugano tra le braccia di Maader Folk

Di sera, nell’Auditorio Stelio Molo, regala estratti dal nuovo disco (con sorpresa). E di pomeriggio, parole preziose.

'Ci sono concetti che restano folk che tu li suoni con la filarmonica o con una motosega' (foto: © RSI/L.Daulte)
5 ottobre 2021
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La madre del folk, o ‘Maader Folk come la chiama lui, è stata più generosa di madre natura. Lunedì umido a Lugano, ma la pioggia val bene lo showcase di Davide Van De Sfroos, che riporta all’Auditorio Stelio Molo le buone abitudini ticinesi, la musica dal vivo. In dialogo, come si dice oggi, con Gianluca Verga, il cantautore parla più di quanto canti ed è comunque musica. ‘Oh Lord, Vaarda Gio’, duetto con Zucchero, si prende una buona mezz’ora tra videoclip e collegamento Skype con il protagonista, Mauro Corona, che dalle sue montagne sfoggia una t-shirt del ‘Manicomi Tour’, i De Sfroos a Lugano un anno fa.

Poi, tra ‘Il mitico Thor’, ‘Gli spaesati’ e una ‘Agata’ che sa di Premio Tenco, il cantautore si fionda in un disco atteso sette anni consegnato a Taketo Gohara, produttore, e Mauro Ottolini, fiati, due tizi che hanno spostato più su di una tacca l’asticella del folk. Nella lunga attesa per il live al Teatro del Verme di Milano («Che adesso sarà diventato una farfalla»), quella di Lugano è un’occasione. Anche di pomeriggio, in camerino, dove appoggiato a un pianoforte, e la chitarra poco più in là, Davide ci concede un angolo di ‘privato’ di ‘Maader Folk’.

Partiamo dalla visione? L’ho letta, ma raccontata di persona dev’essere tutta un’altra cosa...

Non è romanzata, è esattamente quel che è successo. Non è la Madonna di Lourdes, non è la folgorazione sulla via di Damasco, non è nemmeno i Blues Brothers. In un momento nel quale ti ritrovi in casa il Covid-19 e tutta la famiglia lo prende, fortunatamente in forma non più forte di quella influenzale, non tutti i sogni sono belli. Forse perché hai tanto tempo per pensare, la febbre sale e tu vorresti dormire ma non ci riesci.

E finalmente qualcosa arriva, come una forma di guarigione non tanto dal Covid ma dall’altro virus, quell’ombra che ci rabbuia tutti; vedo una figura che mi sembra una madre, ma che potrebbe essere una figlia, una sorella, una moglie o una sposa; niente di sexy, una figura benevola, compassionevole, che mi fa capire che questo folk al quale mi ero aggrappato per tutta la vita doveva tornare, che non dovevo avere paura di rimettermi a giocare, a colorare i sassi come quand’ero bambino; non dovevo avere paura dei miei suoni anche se adesso ne van di moda altri.

Mi alzo, mi lavo la faccia e cerco della musica: penso a Townes Van Zandt, a Woody Guthrie, a Pete Seeger, a Dylan, e nella testa mi entra Phil Ochs…

È una visione laica o quella di un credente?

Non l’ho mai portata nel territorio del sacro. La definirei ‘simpaticamente folk’, un’esplosione del mio subconscio che aveva necessità d’invocare una figura e collegandosi forse al Superconscio mi ha fatto sognare questa madre, perché avevo bisogno di sognarla, perché la invocavo. E poi è arrivato il nome, ‘Maader Folk’, esaustivo, provvidenziale. La Bmg mi ha imposto di non toccarlo, perché il titolo è qualcosa d’importante.

Ma la cosa ancora più bella è stata chiamare Fabrizio Cestari (il fotografo, ndr) che ha lavorato sul sogno che gli avevo raccontato, ha scelto la modella, multietnica come la madre che avevo sognato, le ha costruito il vestito, e ha cercato di riprodurre il colore del mio sogno. Mi trovavo sulle Dolomiti a registrare ‘Il Mytonauta’ (Rai 2, ndr), mi sono seduto in un bar, ho guardato il telefono e l’ho vista come l’avevo sognata. E mi sono sentito tranquillo.

Dire che c’è qualcosa di onirico anche nella produzione di Taketo Gohara è un’eresia?

No. Gohara mi conosce, ha capito cosa stavo facendo. Ha preso i pezzi e li ha portati a fiorire, ma non nel suo mondo: ha portato il suo mondo nelle mie canzoni perché fiorissero. Ne ‘Gli spaesati’, che è un testo impegnativo, ci ha visto voglia, fierezza e i suoni mariachi, e così l’amarcord fatto di niente che è ‘Reverse’, canzoni di tre accordi come ai tempi dei Beach Boys o dei Ramones, lineari, cantabili anche da un bambino, per le quali si può osare. Il folk non è solo fisarmonica, armonica a bocca e violino. Ci sono concetti che restano folk che tu li suoni con la filarmonica o con una motosega. Il folk è uno status come il blues, che posso suonarlo pur non essendo della Louisiana e noi, tranne che le bande, le ninne nanne e le canzoni da osteria, non abbiamo una folk music. Ma usando la semplicità delle strutture si può crearne una nostra.

Visto che oggi Davide suona queste cose, che i Luf suonano queste altre, e i Modena City Ramblers altre ancora, i nipoti dei nostri nipoti diranno un giorno “Questo era il folk di una corrente che è esistita in Italia”, non quella degli anni prima di noi, ma di questo tempo.

È ‘osare’ anche il laghée fuso con l’emiliano e l’inglese, nel duetto con Zucchero...

Sì, un tris in tutti i sensi che alla fine diventa un poker. La canzone è vecchia di dieci anni e nemmeno doveva entrare nel disco, poi l’amico Lorenzo Vanini (l’odontoiatra, ndr) mi chiede un brano per distrarsi durante le vacanze di Natale; quando ascolto la sua versione è talmente potente che capiamo di non poterla lasciare fuori; poi scoppia il Covid, ma noi continuiamo a lavorarci sopra, la riarrangiamo, la sistemiamo con Taketo e io ci sento la voce di Zucchero anche se non c’è, e gliela propongo ma Zucchero è in giro con Sting, ma dice di aspettarlo perché ci tiene, che è nella sue corde; fa una prova, io gli dico di prendersi spazio.

Al di là del leone ruggente Zucchero, in quella canzone ci sono le strofe del bambino Adelmo che se ne va in giro, spaesato, che torna a pensare a un suo modo di rivolgersi all’infinito. Il tris arriva con Mauro Corona nel video, e il poker arriva con la maglietta di Emergency che ha indosso. È successo poco dopo la morte di Gino Strada, e mi è sembrato il giusto tributo.

‘Madeer Folk’ arriva dopo Manicomi, che allo Studio 2, un anno fa, sintetizzò il momento di follia collettiva che stavamo, o stiamo vivendo. Quanto è distante la sanità mentale?

Io sono, ahimè, un termometro vivente, perché per motivi che non ho deciso mi ritrovo a essere un reattivo chimico che comprende le tensioni, la rabbia, la sofferenza degli altri, che mi vedono come qualcuno che può capirli, perché il mio aver sofferto di certi mali dell’animo è noto e ancora mi vedono sopra un palco che continuo a cantare, e dicono che se ce la sto facendo io che li rappresento, allora possono farcela anche loro.

Dico che siamo in un punto ‘Babylon 5’ (serie tv di fantascienza, ndr), perché si sono mescolate le acque. Il Covid-19, nella mia mente psichedelica, è la frenata di un treno in corsa di chissà quanti vagoni, che ha rimescolato tutto: rabbia, paranoia, paura, politica, economia, follia da stadio che si trasforma in creatività discutibile, canzoni urticanti provocatorie pruriginose e altre intelligenti; si fondono le mode, i mondi, la sessualità, che è un bene da una parte purché non diventi tendenza; alcuni si sono accartocciati in una delusione che magari era già un serpentello ed è diventato un cobra, che era un cobra ed è diventato anaconda. Chi invece era una lucciola magari è diventato un arcangelo luminoso. Ma c’è stato anche chi si è spaccato, perché colpito da lutti o perché ha lottato contro la malattia e ora soffre.

Ci troviamo a un punto nel quale, così la vedo io, ci vorrebbe il coraggio di guardarsi indietro e dire “Oh Lord, dove devo andare ora, perché mi sembra che sono in giro da 56 anni ed è tutto un po’ confuso...”.

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