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Nirvana, c’era una volta ‘Nevermind’ (e ancora c’è)

Segnò l’affermazione del grunge, spazzò via l’hair rock e spostò Seattle un po’ più al centro del mondo. Era il 24 settembre 1991

Hello, hello, hello (ad lib)
24 settembre 2021
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Obiettivo della Dgr, acronimo di David Geffen Records, casa discografica di entrambi, era quello di vendere almeno quanto ‘Goo’ dei Sonic Youth dell’anno prima, 250mila copie. E i Nirvana, che aprivano i loro concerti e avrebbero tanto voluto diventare come i Sonic Youth, “anche solo per comperarci un appartamento” – Dave Grohl, oggi Foo Fighters, al magazine Uncut – di copie dell’album ‘Nevermind’ uscito giusto trent’anni fa ne hanno vendute a oggi circa 30 milioni. Trainati da un manifesto generazionale intitolato ‘Smells Like Teen Spirit’, che nel gennaio del 1992, sdoganato da Mtv, scansò il Michael Jackson di ‘Dangerous’ dal piano più alto della Billboard 200, e con ‘Come As You Are’ e ‘Lithium’ a rimorchio, il trio Kurt Cobain, Chris Novoselic e David ‘Dave’ Grohl spostò – con l’aiuto degli ascendenti Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains – le coordinate della città di Seattle sempre più verso il centro del mondo.

Prodotto da Butch Vig fresco di Smashing Pumpkins, e mixato dalle orecchie metallare di Andy Wallace fresco di Slayer, ‘Nevermind’ è il grunge che spazza via l’hair rock, i capelloni degli anni Ottanta scaricati dalle major che improvvisamente si mettono a flirtare con tutto quanto è alternative. Un regno, quello del ‘sudicio’ grunge, interrotto solo tre anni più tardi, qualcuno dice, dal suicidio di Cobain, iscritto al club dei 27, fragile di salute di suo, poco aiutato dall’eroina e dalla relazione con l’ex Hole Courtney Love, colei che i biografi del rock meno accondiscendenti hanno voluto definire ‘la Yoko Ono dei Nirvana’.

I Nirvana a Biasca (quasi)

Su Rete Uno, dentro una ‘Valigia del Buzzi’ del gennaio 2019, ancora ascoltabile, ci sono i ricordi di Marco Antonini, già manager dei Gotthard, già fondatore del Rock Café di Biasca, già tempio del rock della Svizzera italiana, già artisticamente diretto dal suo braccio destro lo svizzero-americano oggi ticinese Danny Lee. Era Lee a dirottare al Rock Café i nuovi gruppi che dagli ombelichi del mondo arrivavano a Zurigo e Ginevra, e prima della tappa successiva obbligata, l’Italia, riempivano i day off (giorno libero) fermandosi, per esempio, in Ticino. “I Nirvana dovevano suonare da noi”, ricorda Lee nella trasmissione. “Era il 1990. Parlai con Londra, mi dissero che c’era questo gruppo nuovo che aveva un day off. Mi chiesero se avessimo avuto spazio. Al tempo, non li conoscevamo abbastanza. Chiesi a Marco cosa ne pensasse; mi pare che lui avesse chiamato Gianluca Verga, che rispose “prendili subito, cosa state aspettando!”. Non so cosa sia andato storto – chiude il ricordo Lee – ma alla fine hanno tirato dritto».

I Nirvana a Mezzago (davvero)

«Potrebbe essere una delle tante date annullate, perché Cobain stava male molto spesso. Ricordo di aver letto che nel 1989 al Fri-Son di Friborgo, di spalla ai Tad, suonarono solo Chris Novoselic e Chad Channing, perché Cobain non si sentì bene». Siamo andati a raccogliere ricordi di una certa competenza in casa, bussando alla scrivania di Giancarlo Fornasier, caporedattore di Ticino7, uno di quelli che oggi, a porte girevoli girate al contrario, potrebbe dire di aver suonato sul palco dei biaschesi Nirvana. Magari sulla batteria di Dave Grohl. «Il Rock Café era un vecchio teatro e poi cinema, diventato in breve tempo il palco di riferimento in quegli anni. Anche perché in Ticino non c’erano molti luoghi dove suonare dal vivo. Partecipai a un concorso musicale del 1991 per giovani band ticinesi con un gruppo di Lugano. Credo che il Rock Café avesse contatti con il Fri-Son, già centro autogestito dal quale transitava molta della scena indipendente internazionale. Dalla Germania scendevano, si fermavano a Friborgo, poi andavano a Ginevra, Berna, Zurigo e continuavano in Italia». Di norma fino al Bloom di Mezzago, in provincia di Milano, dove i Nirvana suonarono nel novembre del ’91.

«Andai a quel concerto un po’ spinto da amici dell’università. Il Bloom non era il Rolling Stone, era il classico locale indipendente con una sala in cui il suono era spesso terribile ma in cui passava di tutto, forse perché quei suoni non trovavano altre case, se non magari nei centri sociali, a Bologna, Firenze o Roma».

Di seguito, spaccato di primi anni Novanta: «La sera del 17 novembre, in cinque sopra un’Alfa 33 (diretta discendente dalla meno fortunata Alfasud, ndr) arrivammo presto al Bloom direttamente da Milano; c’era già molta gente, ma si riusciva ancora a entrare. Salirono i Nirvana e anche in quell’occasione, dal punto di vista dell’acustica, fu ‘il devasto’, come si diceva ai tempi». “Al Bloom – raccontava alla Stampa Manuel Agnelli nel 2016, nel 25ennale di quel concerto – abbiamo potuto imparare vedendo band che suonavano a un metro e mezzo da noi. Sì, quel locale ha visto lungo, era troppo avanti”. E su quel 17 novembre: “Una rivoluzione, anche se caotica e imperfetta. Noi (Afterhours, ndr) eravamo stati presi in giro da tutti, per la musica in cui credevamo. Poi sono arrivati loro (Nirvana, ndr) e sono riusciti a sdoganarla”.

A differenza di altri, la sera del 17 novembre Fornasier non vide la Madonna: «Mai troppo duri per essere radicali, ma nemmeno troppo ‘fighetti’ per non essere accettati dai radicali. E infatti, al concerto di Mezzago i loro fan erano omogenei. I suoni duri erano altri. I Nirvana erano il suono perfetto delle college radio, rappresentavano l’enormità di gruppi che s’inserivano in quel filone indipendente che usciva dagli schemi. Con singoli strepitosi, col video pazzesco di ‘Smells like teen spirit’, l’adolescente che si libera dalle catene, nella riproposizione del ‘teenage kick’, la spinta adolescenziale – anche sessuale – di cui cantavano gli Undertones. Alla fine, è sempre rock and roll». Ma con una differenza: «Il risentimento, l’introspezione che veniva dagli anni Ottanta, dalla new wave, l’introspezione tipica di alcuni gruppi grunge, dei temi cari ai Pearl Jam, i genitori che divorziano, la solitudine. In Cobain c’era qualcosa di più baudleriano e, dal punto di vista testuale, credo lui incarnasse una crescita ‘letteraria’». Discograficamente parlando: «Chi li ha prodotti sapeva cosa faceva. Duri al punto giusto, accettabili al punto giusto, con dentro un po’ di tutto, a mettere d’accordo metallari e poppettari. Credo che ‘Smells like teen spirit’ la potesse ascoltare anche mio padre con quei quattro accordi che aprono il brano e la batteria che attacca». E poi Mtv, l’immagine pazzesca di Cobain e la copertina: «La copertina? Per me è sempre stata bruttina, c’erano artwork molto più interessanti in quegli anni».

Pasadena Aquatic Center

La banana dei Velvet Underground, il prisma dei Pink Floyd, la zip degli Stones, il cannone degli AC/DC e altra arte varia che ancora fa felici i collezionisti che non si rassegnano a quel sociopatico di Spotify, freddo e calcolatore, ma soprattutto fa felici le cartografiche. Tra le copertine della storia – per scelta non usiamo la parola ‘iconica’ (questa non vale) – c’è anche il bambino sott’acqua dei Nirvana. Prima di essere esposta al MoMA, la copertina di ‘Nevermind’ era un’idea nella testa di Cobain nata dopo la visione di un documentario sui parti in acqua, resa fattibile da Robert Fisher, impiegato in odor di carriera come art director della Geffen la cui moderata popolarità all’alba dei Novanta era pari a quella dei Nirvana in cerca di un’etichetta più grande. L’idea nella testa di Cobain per la cover di ‘Nevermind’ era, inizialmente, quella di un neonato sott’acqua. “L’unica cosa che potevi fare prima di internet – parole di Fisher liberamente in rete – era cercare fotografie alla libreria all’angolo, ma io non riuscii a trovarne di veramente buone, e quelle buone erano troppo esplicite”. Ritenendo che l’idea del neonato sott’acqua non fosse sufficientemente forte, “Kurt se ne venne fuori con l’idea di aggiungere un amo, per rendere tutto più minaccioso. Spendemmo un pomeriggio a decidere l’esca». E l’esca sarebbe potuta essere «un pezzo di carne cruda, una bistecca, un burrito, un cane. Non ricordo chi disse della banconota da un dollaro, ma fummo tutti d’accordo”.

Dopo l’idea, a Fisher serviva un fotografo e la scelta ricadde su Kirk Weddle, noto per le campagne commerciali di brand automobilistici, ma i cui crediti includevano anche la specializzazione in “umani sommersi”. Ed ecco che al centro acquatico di Pasadena, California, quattro o cinque differenti coppie di genitori immergono i propri bebè nel blu della piscina olimpionica; e dalla cinquantina di provini spediti da Weddle emerge la foto perfetta, frutto di quattro minuti di scatti rapidissimi, dall’immersione del pargoletto al primo pianto. Nato il 7 febbraio del 1991, quattro mesi all’epoca di Pasadena, il bimbo prescelto è Spencer Elden; nato un anno prima, Photoshop non era ancora nemmeno sui Power Book casalinghi della Apple; per aggiungere amo, filo e banconota, e per togliere la pavimentazione della piscina al fine di ottenere una più inquietante profondità azzurra, i grafici ci misero cinque giorni. Ottenuta la copertina del secolo, o una di esse, si apriva la questione ‘pisellino’: il timore di una censura dovuta alla nudità del minore ritratto convinse la Geffen a tenere pronto il piano B, la copertina senza pisellino, da cancellarsi a colpi di aerografo; la storia dice che Cobain avrebbe accettato al massimo un adesivo, sostenendo che “chi poteva sentirsi offeso dall’immagine di un pene di un neonato, probabilmente doveva essere un pedofilo represso”. Versione alternativa del 2007: “Cobain preparò anche un adesivo con cui coprirlo su cui si leggeva «Se ti senti offeso da questo, devi essere un potenziale pedofilo»”.

Appendice

Diciassettenne, aveva dichiarato in tv: “Oggi un po’ mi vergogno se vedo in strada qualcuno con la maglietta sulla quale c’è la mia foto nudo. Ma il mio dispiacere più grande è che non ho potuto conoscere personalmente Kurt Cobain. Però sono felice, mi hanno regalato il disco di platino di ‘Nevermind’. È appeso in camera mia e ci faccio veramente una bella figura con le ragazze”. Oggi, Spencer Elden, cinque anni dopo aver ricreato l’immagine di copertina dentro un’altra piscina per rendere omaggio, vestito, ai 25 anni del disco, ha intentato una causa contro gli eredi di Kurt Cobain e contro i Nirvana viventi per aver “commercializzato intenzionalmente la (sua) pornografia infantile” e per averlo obbligato a compiere “atti sessuali commerciali”. Sostenendo che né lui, né i suoi tutori abbiano mai acconsentito al servizio fotografico da nudo, Elden afferma di aver subito “danni per tutta la vita”.

Mentre si preparano ad affrontare la causa, i Nirvana viventi ufficializzano una versione super-extra-ultra-iper deluxe di ‘Nevermind’ con 94 tracce fra audio e video, di cui 70 inedite. La copertina? La stessa.

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