Spettacoli

‘Fat Front’: i corpi ribelli secondo Lorella Zanardo

L’attivista italiana sarà ospite del Film festival diritti umani per presentare un documentario sull'orgoglio del proprio corpo

‘Fat Front’ di Louise Detlefsen e Louise Kjeldsen
16 ottobre 2020
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È un film pieno, ‘Fat Front’ delle registe Louise Detlefsen e Louise Kjeldsen: pieno di energia, di vita, di allegria. Non sempre, purtroppo: le giovani protagoniste del documentario hanno i loro momenti bui, in cui si cede alla vergogna di avere un corpo grasso, l'ansia prima di mostrare al mondo rotoli e cosce voluminose. Essere grassi – orgogliosamente, fieramente grassi – contro i preconcetti della società è una questione di diritti umani e il film sarà proiettato, nell’ambito del Film festival diritti umani, oggi alle 16 al cinema Iride di Lugano e domenica alle 11 al Palacinema di Locarno. Domenica, a presentare il tema del film, ci sarà l’attivista e scrittrice Lorella Zanardo con l’intervento “Corpi ribelli senza filtri”.

Lorella Zanardo, in che senso un corpo può essere ribelle?

Già quando, anni fa, uscì il mio documentario ‘Il corpo delle donne’, parlavo della liberazione dei corpi, della libertà di essere “corpi ribelli”.
Da sempre le donne sono soggette a una sorta di dominazione, di imposizione di modelli che sono cambiati nei secoli: pensiamo all’epoca delle miss, negli anni Cinquanta e Sessanta, quando bisognava avere il seno molto grande e il vitino. E le donne a casa “prendevano esempio”.

Dagli anni Cinquanta cosa è cambiato?

La moltiplicazione degli schermi e dei media che impongono i modelli. Dico “impongono” e non “propongono” perché i media sono molto potenti e molto invasivi: una proposta è qualcosa di educato, di gentile che posso pensare di accettare, ben diversa dalla forsennata proposizione di corpi su tutti gli schermi.

L’idea di corpi ribelli la vedo come una stanchezza delle donne più consapevoli che dicono “voglio che il mio corpo sia a modo mio”.

Un discorso iniziato con la televisione ma che, soprattutto per le nuove generazione, va esteso ai social media.

Certo. Il fenomeno più interessante è che dopo l’uscita del documentario sono arrivate centinaia di richieste da insegnanti che chiedevamo strumenti per decodificare le immagini. È l’educazione ai media, materia obbligatoria in molti Paesi. Da dieci anni portiamo questi corsi, che chiamiamo “nuovi occhi per i media”, nelle scuole, proprio per trattare non solo di televisione ma di tutti gli schermi. Tra l’altro proprio in questi giorni esce il mio nuovo libro, ‘Schermi: se li conosci non li eviti’, pubblicato da Franco Angeli, una sorta di educazione civica per i giovani. La ricetta non è chiudere tutti gli schermi, ma imparare a guardare le immagini.

Noi guardiamo le immagini ma sempre più le produciamo anche.

L’educazione ai media deve occuparsi anche di questo: avere un atteggiamento etico nel condividere. E la prima cosa è ragionare. Vale per le ‘fake news’, vale anche per il corpo femminile: prima di aderire a un modello imposto, devo ragionare, chiedermi se quel modello lo voglio davvero, se mi fa felice o se lo seguo solo per essere accettata.

Perché questi modelli li troviamo sugli schermi, ma a portarli avanti sono spesso le donne stesse.

Questo è un tema molto importante. Quello che dice è vero e io sono molto comprensiva, verso chi segue quei modelli — a volte scontentando chi è più rigido di me. Lo combatto ma nello stesso tempo studiandolo mi rendo conto quanto questo modelli sia pervasivo.
Un conto è la consapevolezza che può avere una élite, dovuta anche all’aver studiato. Ma la maggior parte delle persone non ha questa consapevolezza: per questo penso che in una democrazia sia importante dare a tutti questi strumenti.
Ci dicono gli psicologi dell’età evolutiva che quando ragazze e ragazzi crescono agiscono tre agenti di socializzazione: la famiglia, la scuola, i media. Ma la famiglia spesso non ha gli strumenti per comprendere la rivoluzione portata dal web. Vogliamo fargliene una colpa? Le scuole fanno anche loro fatica, e i media hanno un potere immenso.

I social media come Instagram che impatto hanno?

Il modello unico è ancora più imposto: vediamo questi volti modificati digitalmente, per cui ci si presenta online con i lineamenti alterati. E quando c’è la possibilità di un incontro di persona con chi si è conosciuto online, molti ragazzi e ragazze vanno in crisi. E alcuni arrivano anche a non riconoscersi più, perché la loro vera immagine è diventata quella dei social.

Un meccanismo che vediamo in ‘Far front’: l’accettazione del proprio corpo grasso passa anche da un’immagine ‘sincera’ sui social media.

Il film è molto interessante perché ci obbliga a riflettere.
Da una parte abbiamo i corpi completamente artefatti di Instagram, corpi che aderiscono a un modello. Dall’altra abbiamo il corpo ribelle di alcune forti donne e ragazze che dicono basta e mostrano il proprio corpo grasso. Però a volte la verità sta nel mezzo: io combatto l’imposizione del corpo unico e ho apprezzato molto il film per il suo messaggio di “accettiamoci nella nostra unicità”, perché nelle scuole ho incontrato tanta sofferenza, tantissime adolescenti, e anche tantissimi adolescenti, soffrono perché si sentono inadeguati. Ma non dobbiamo neanche andare verso la glorificazione del grasso, perché giustissimo non cadere in depressione, giustissimo non sentirsi emarginate, ma quando il grasso è tanto, quando non si tratta di 3-4 chili in più, ci possono essere importanti problemi di salute.

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