Spettacoli

Locarno2020, ‘Nemesis’, un documentario lungo 7 anni

Thomas Imbach ha presentato il suo ‶documentario alla finestra″: una stazione ferroviaria distrutta per far posto a un carcere, dagli scambi alla prigionia

Thomas Imbach
10 agosto 2020
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Che cos’è un documentario? È una raccolta d’immagini pronta a cambiare senso. È il tentativo falso di raccontare una verità offrendone altre. Lo abbiamo pensato assistendo alla prima locarnese di “Nemesis” di Thomas Imbach, film che aveva trovato la sua prima mondiale alla 51ª edizione di Visions du Réel, che si è svolta solo online, per cui il pubblico del Festival di Locarno è stato il primo a vederlo su grande schermo, come merita. 

Il film è dedicato alla metamorfosi della vecchia stazione merci di Zurigo, distrutta, o meglio cancellata, per la costruzione di un carcere e di un centro di polizia. Il film è una specie di diario filmato che racconta questo evento capitale per la civiltà di una città che già sa che il 90 per cento dei carcerati della nuova prigione saranno immigrati, per lo più rifugiati in attesa di essere espulsi dalla Svizzera. Thomas Imbach osserva dalla sua finestra dal 2013 al 2019 lo scempio, la cancellazione forzata del passato e la sua vile sostituzione con apparati di sicurezza. Da un luogo di scambio di merci, di liberi arrivi e partenze a uno di prigionia senza rispetto. È chiaro che le immagini, girate in 35 mm dal regista, restano, al di là del suo film, una testimonianza fondamentale del cambiamento d’uso di un territorio, e insieme l’ultima memoria di un’architettura del primo Novecento cancellata, e se vogliamo anche la memoria di come è nato il nuovo carcere di Zurigo. Ma il film di Imbach non vuole mettersi su questo piano di memorie, altrimenti non dedicherebbe lunghe inquadrature a una volpe libera di passeggiare prima tra rovine e poi tra costruzioni, o a un calabrone che amoreggia con un fiore, o a due amanti che cercano di baciarsi masticando un chewing gum.

Imbach impressiona lo spettatore con le mascelle di un escavatore meccanico che morde un lampione, poi sembra chiedere conto alla città con gli aerei che di continuo atterrano e partono, con i fuochi d’artificio che accompagnano le feste, con l’irrinunciabile festival dello street food, può una città così sentire il bisogno di una prigione? Il regista è l’uomo dietro la camera da presa, e da Dziga Vertov ha appreso che ogni immagine è politica, e allora ecco sulle immagini, che altro potevano essere, egli imprime le testimonianze di chi ora in un altro carcere già teme di finire nel nuovo carcere, e sono testimonianze migranti commosse e commoventi, che impongono riflessione di fronte al decisionismo di chi si sente forte per aver vinto per un punto il referendum del 9 febbraio 2014. Il regista filma giorno e notte, pioggia o neve, a volte al rallentatore, a volte accelerato o al contrario, intanto le stagioni passano segnando il cambiamento. E una cosa si imprime, ancora, nella mente dello spettatore una scena drammatica per il senso che prende, i politici che seppelliscono una cassa piombata nel cemento a futura memoria, dentro ci sono detriti della vecchia stazione, e uno specchio voluto da un ministro per dire dell’onestà che deve avere la politica, capace di guardarsi allo specchio, e delle manette volute dal capo di polizia come testimonianza del nostro tempo. Imbach è amaro nel suo dire e la sua è una riflessione illuminista in un tempo di buio imperante Medioevo.

Gli applausi e le domande

«È costato molto fare questo film in 35 mm?». La domanda coglie un po’ di sorpresa Thomas Imbach: la proiezione del suo “Nemesis” è appena terminata e gran parte del pubblico è restato in sala incuriosito da uno spiazzante film documentario. «Abbiamo girato molto in pellicola, a Zurigo ci sono buoni studi per lo sviluppo, certo costa di più girare in pellicola che in digitale, ma per fare questo film era importante la qualità dell’immagine, diciamo che il mio impegno gratuito per tutti questi anni, dal 2013 a oggi, è stata la compensazione dell’aver fatto il film in pellicola». Un’altra domanda sulla produzione: perché non c’è una televisione tra i produttori? Lui qui è pronto: «Tutti i miei film precedenti avevano avuto l’appoggio di una televisione, anche questa volta ero andato in cerca di un tale sponsor, ma mi hanno risposto che avevo già girato un film guardando dalla mia finestra e che non sentivano la necessità di una nuova produzione simile, non si sono posti il problema di quello che avrei detto. Di certo a un certo punto è stata un incubo economico questa produzione».

Le domande fioccano, una in particolare lo colpisce. Nel film si vede un cantiere in attività con operai e altri, non c’è stato un problema di privacy? Imbach ci pensa un po’: «Per fare questo film non potevamo andare in cantiere e chiedere autorizzazioni, sarebbe cambiato tutto, non ci sarebbe stata spontaneità, era impensabile. Avevo già girato un film chiedendo le autorizzazioni necessarie, non influiva sul mio raccontare, qui era diverso quello che vedevo era un mondo che non potevo condizionare, avevo bisogno di originalità dell’agire». Come è nata l’idea del titolo, “Nemesis”? «Il titolo l’avevo già pensato all’inizio, poi durante il montaggio si è fatta più precisa l’importanza di questo titolo, è un po’ l’indicazione di quello che si vede nel film». Com’è stato il lavoro con il suono, elemento molto importante nel film?. Imbach sorride: «Qualcuno mi ha detto che il suono è un po’ alla Jacques Tati, sì ci sono molti artifici e la maggior parte del suono non è in presa diretta, abbiamo lavorato sui suoni anche con un gruppo musicale. Il fatto è che il suono aiuta l’immaginario dello spettatore».

Una domanda obbligatoria: il suo film è un documentario? Il regista ci pensa, forse si aspettava questa domanda «Penso che in questo film sia importante la questione della messa in scena, certo non avevamo avvisato il cantiere, ma girando in 35 mm e non potendo girare molto, avevo in testa già l’idea della sceneggiatura, era indispensabile per avere poi in montaggio le immagini che mi servivano. È stato difficile talvolta cogliere i momenti, Forse non è un documentario come si intende classicamente». Avete usato luci? «La luce è tutta naturale, non abbiamo voluto influenzare quello che succedeva, certo abbiamo anche usato lo slow motion in certi momenti, ma aveva un senso narrativo diverso dall’uso delle luci».

Come avete ottenuto i dialoghi dei migranti? «I dialoghi sono merito della mia assistente Lisa Gerig che aveva contatti con un gruppo di richiedenti asilo, tra cui una giovane donna dalla terribile storia che poi nel film raccontiamo. Quello che è stato interessante è la comune idea che avevano, quella di un futuro in una nuova prigione. In tutto dobbiamo considerare che se il film copre un arco di immagini dal 2013 al 2019, abbiamo cominciato solo da due anni il montaggio, per cui le testimonianze sono recenti». Com’è stato il montaggio? «Direi che è stato lungo, avevamo diverse versioni del girato, poi avevamo immagini della doppia camera che davvero abbiamo usato poco». Gli ultimi applausi. Imbach esce dalla sala stanco ma contento del successo della serata.

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