BERLINALE

Da Hillary alle Favolacce, una lunga giornata di film

Presente alla presentazione del documentario su di lei anche Hillary Clinton, dedicatole da Nanette Burstein

Favolacce
25 febbraio 2020
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Giornata di massima sicurezza alla Berlinale per la presenza di Hillary Clinton, giunta a Berlino per presentare il documentario ‘Hillary’ che le ha dedicato  Nanette Burstein, autrice di documentari premiati più volte al Sundance e già nomination Oscar nel 2000 per ‘On the Ropes’. Qui interviste strettamente controllate per evitare domande indisponenti, tanto il film di cui è protagonista, girato in parte durante la sua campagna elettorale nel 2016, già bene si esprime sia contro l’avversario Trump che contro il suo sfidante interno Bernie Sanders, che neppure oggi accoglie i suoi favori. 
Si tratta di 252 minuti che scorrono con continui flashback per percorrere insieme alla campagna presidenziale l’intera vita di questa donna decisa e forte. 

Scaricabarile

Al di là della signora Clinton, il Festival ha vissuto una lunga giornata di Concorso, con ancora la bandiera elvetica in bella vista grazie a ‘Favolacce’ di  Fabio & Damiano D’Innocenzo, coproduzione italo-svizzera ambientata in una periferia romana abitata da adulti immaturi e da bambini che preferiscono morire piuttosto di essere vittime della quotidiana imbecillità di genitori incapaci di crescere. Un film carico di situazioni forti ed emblematiche di un’attualità ben conosciuta dalla cronaca, ma che non riesce mai ad approfondire situazioni che restano in luce come battute, mai con una chiara costruzione psicologica di personaggi i cui caratteri restano vacui. I fratelli D’Innocenzo, che ritornano a Berlino dove nel 2018 avevano presentato la loro opera d’esordio ‘La terra dell’abbastanza’ nella sezione Panorama, ci riportano a un tema caro a Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, che nel 1943 confezionarono quel capolavoro che è ‘I bambini ci guardano’, anche allora periferia romana e adulti poco inclini all’affetto verso i bambini; qui la periferia è aggiornata, più che a un’idea pasoliniana, a quella di un Sergio Citti, seminando il racconto di non irresitibili macchiette. Protagonisti della storia, tre famiglie, i loro figli e qualche vicino: i genitori sono frustrati dal non poter aver destino migliore, non si preoccupano di figli che sono oggetti, non si aspettano niente da loro, non credono che esista anche per loro un riscatto attraverso la cultura, la scuola. Anzi, non si accorgono neppure dell’influenza che ha un perfido professore sui loro pargoli: questi insegna loro a costruirsi una bomba in casa e a usare un potente antiparassitario per uccidere o suicidarsi. Genitori che non si vedono colpevoli, che accusano di tutto gli zingari e i comunisti, che si crogiolano in un vuoto ideologico totale e pagano per la loro ignavia. È interessante peró come gli autori scarichino tutte le colpe della bastarda situazione sulla scuola, un po’ come succede del resto in tutta Italia, dove di tutto viene fatta responsabilità a una scuola che non puó farsi carico anche dell’incapacità educativa dei genitori. Tutto accade in estate, durante le vacanze, il tempo in cui i bambini e le bambine scoprono la solitudine nella propria famiglia.

Si esce col dramma negli occhi

E ancora di giovani e famiglia parla il secondo film in concorso: ‘Never Rarely Sometimes Always’ scritto e diretto da  Eliza Hittman, film già premiato poche settimane fa a Sundance. Un film che si regge, oltre che per la buona mano direttoriale della regista, per la splendida interpretazione dell’esordiente Sidney Flanigan nel ruolo della protagonista, Autumn, cui fa buona spalla una convincente Talia Ryder come Skylar, l’amica. Eliza Hittman affronta un tema doloroso e al centro ancora di grandi e gravi discussioni qual’è l’aborto. E lo fa prendendo di petto la situazione: la sua protagonista è minorenne, la famiglia non sa, è assente, anche qui periferia, anche qui non c’è la scuola. Autumn ha 17 anni e si ritrova incinta di chi non è importante, non c’è; la regista, a differenza degli italiani, non ha bisogno di un colpevole che giustifichi, lei è incinta e sente il problema solo suo, fa la cassiera in un supermercato, vorrrebbe abortire, si massacra la pancia, sa che dove vive, nella campagna della Pennsylvania, è difficile abortire. Ma accanto scopre di avere una collega coetanea, Skylar, che prende in mano la situazione; andranno insieme a New York City, sarà per entrambe un viaggio iniziatico che, insieme a maturare la loro amicizia, darà loro un senso di futuro meno oscuro. C’è in questo film quello che manca al film italo-svizzzero, la dignità dei personaggi, una dignità che rende credibile e universale il dettato di Eliza Hittman che non rinuncia a una precisa denuncia sociale, ma rinuncia a renderla splatter e maramaldeggiante, in un lavoro di sguardi che rende grazie al grande cinema. Si esce di sala con negli occhi il dramma di questa giovane, le sue lacrime nel rendersi conto della solitudine in cui è stata abbadonata in un bisogno fondamentale saper amare, conoscere la propria sessualità, non essere l’oggetto di un gioco di cui pagare pesante pegno. Un film di civiltà.

Commedia umana

Su altri livelli ancora ci porta il terzo film in concorso: ‘Domangchin yeoja’  (titolo internazionale ‘The Woman Who Ran’) di Hong Sangsoo, ventiquattesimo film di una carriera onorata da  quarantasette premi e ottantadue nominations. Protagonista la grande attrice Min-hee Kim, già premiata qui nel 2017 per ‘Bamui haebyun-eoseo honja’  dello stesso regista. Il film racconta di Gamhee (Min-hee Kim) che – mentre il marito è in viaggio d’affari, senza di lei per la prima volta dopo cinque anni di matrimonio – si reca a trovare in un quieto villaggio di campagna nei dintorni di Seoul tre amiche che non vedeva da tempo. Giocando con atmosfere cechoviane, il regista coreano compone una commedia umana in cui emerge chiaro il peso del tempo che passa per queste donne entrate in un cosciente gioco di maturità che le rende indipendenti ma afone nei sentimenti. La protagonista diventa un leitmotiv tra i vari personaggi, è il suo sguardo e il suo guardare che segnano il cammino di un film grande nella bellezza, semplice del linguaggio cinematografico e in un fine gioco di rimandi dove prendono importanza il cantare dei galli, la simpatia dei gatti, il bisogno di affondare in quel mare infinito che è il cinema sul grande schermo.

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