Spettacoli

Negrita, è rock celebration

Intervista a Pau (aka Paolo Bruni), voce della band aretina che arriva al Palacongressi di Lugano il 24 gennaio con il tour teatrale

Negrita on stage
18 gennaio 2020
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«Ho comprato un congelatore americano, di quelli molto alti. Dormo lì dentro». Svelato il segreto dell’eterna giovinezza di Pau, ci addentriamo nei segreti dei Negrita intesi come band, nel tour del 25ennale che sfocia in un cacofonico 26ennale, celebrazione tra l’acustico e il meno acustico in arrivo al Palacongressi di Lugano il 24 gennaio alle 20.30 (www.biglietteria.ch). ‘La Teatrale: Reset Celebration’ è l’unica tappa al di fuori dei confini italiani, sulla scia – nell’ordine – di un ultimo album d’inediti, ‘Desert Yacht Club’ (2018, ritorno e insieme anticipata celebrazione di un’intera carriera) e della raccolta ‘I ragazzi stanno bene’, come da Sanremo 2019.

Pau, i Beatles sono durati meno.
Molto meno. Ma gli Stones? Imbattibili.

Com’è che si resta insieme 25 anni?  Si applicano regole matrimoniali?
Non lo so dire, ho avuto soltanto questo matrimonio. Siamo assieme da una vita, cosa che reputo bellissima e fortunata, nel senso che mai l’avrei immaginato agli inizi degli anni 90. Abbiamo mutuato il nome dagli Stones e a ben vedere il nome fa parte delle cose che tornano. Penso che c’entrino anche alcune scelte di vita, che ci hanno preservato. Rimanere a vivere in provincia, per esempio, senza cedere alle lusinghe delle capitali della cultura e della musica italiana. Questo rimanere fedeli al territorio che ci ha visti nascere e crescere ha fatto un po’ da campana di vetro, rendendoci immuni.

C’entra che Arezzo è un bel posto?
Vivere in Toscana non è uno svantaggio. Al di là dell’arte, anche solo a livello paesaggistico. Io vivo a mezz’ora da Arezzo, ai piedi di un parco nazionale, in zona etrusca, in mezzo a reperti di vario tipo, e castelli. Ha il suo fascino. E comunque sei in un attimo sull’A1 per andare a Roma, Firenze, Bologna, posizione favorevole per chi è spesso in turnée.

Sono poche le band che durano. Mai avuto istinti da Tommaso Paradiso?
Intendi musicalmente?

No. Parlavo solo di ambizione...
E la mia era una battuta (ride, ndr). No, mai vista la necessità, né prima né ora.

Cito da ‘Siamo ancora qua’, su ‘Desert Yacht Club’: “La musica è cambiata e rispondiamo all’assalto”. Dichiarazione di guerra o d’intenti?
Il disco è stato la voglia di ri-manifestare l’essere vivi e vegeti. Un disco dalle velleità moderniste, dal punto di vista sonoro e tecnologico, nato da un piccolo tour mondiale in Asia, Stati Uniti ed Europa. Ci eravamo attrezzati per poter registrare dovunque; negli Stati Uniti abbiamo affittato un van e girato città, deserti, fino a Joshua Tree, da dove viene la foto di copertina; siamo rimasti alcuni giorni in un villaggio bohémien, seduti per terra a comporre. Abbiamo provato a portare il nostro suono in questi anni senza snaturare la matrice, e non è facile per chi come noi viene dagli anni 90. Ad altre latitudini, altri sarebbero già morti e sepolti. Non è facile rimanere a galla nel mezzo di questa invasione degli ultracorpi...

Ultracorpi?
C’è un’esplosione di musica italiana che non avevo mai vissuto se non forse quand’ero bambino, nei primi anni 70 con l’arrivo dei cantautori. Mi sembra che in Italia oggi si ascolti più musica italiana che straniera. E la cosa fa molto piacere.

Sempre in ‘Siamo ancora qua’ vi definite “Campioni di rischi”, una cosa che ripaga, visto com’è andata...
Umanamente ripaga. Meno con il pubblico affezionato a te, che ha sempre una componente conservatrice, in parte inconscia, in parte logica: s’è innamorato per un certo tipo di musica che hai fatto e se cambi devi nuovamente convincerlo. E non è una cosa facile. La componente conservatrice gioca brutti scherzi, non tutti hanno l’elasticità necessaria per accettare il cambiamento, e a volte è stata colpa nostra, per via di cambiamenti anche molto repentini. In alcuni passaggi della carriera credo di poter dire che ce l’abbiamo fatta. Altre volte è stato molto più difficile, ma è un rischio da correre.

… ‘dagli applausi ai fischi’, inclusi...
Sì, per via di dischi che avevano un concept molto importante, per non aver raggiunto il target prefisso, o per aver sbagliato bersaglio, ed è stato ovvio pagarne le conseguenze. Ma non l’abbiamo mai vissuto come handicap, piuttosto come uno stimolo a far di meglio. È ovvio che chi ha una cifra stilistica fissa o ripetitiva, che perpetua quasi all’infinito, rischia molto meno di noi, che invece siamo curiosi di natura, abbiamo una cultura musicale molto molto vasta e non ci siamo mai fossilizzati in uno stesso genere. Anche perché appartenevamo a una generazione bastarda...

In che senso bastarda?
Nel senso che la musica dell’adolescenza, quella che ti segnava, è stata quella degli anni 80. Siamo stati innamorati del rock and roll più tradizionale, ma abbiamo vissuto l’avvento dell’elettronica, dei cantautori inglesi, l’azione trasversale del reggae, la curiosità per la musica latina, che ci ha fatto sentire latini in quanto italiani, parte di una più grande tribù culturale. La nostra svolta in questo senso viene anche da lì. Questo è il patrimonio culturale che ci siamo portati dentro, bello da tirar fuori quando te lo senti addosso, ma che può anche essere il limite che non ti porta a fare gli stadi.

Un ‘Negrita a San Siro’ vi manca?
No, non abbiamo mai avuto quella velleità. Sin dal primo disco, da quando andavamo con regolarità a Milano, sulla tangenziale davanti al Forum di Assago ci dicevamo che quello sarebbe stato il massimo. E così è stato, ripetutamente. Missione compiuta.

Si può esserne certi, visto che avete scritto ‘Non ci guarderemo indietro mai’. Che però cozza con la nostagica ‘Non torneranno più’, nell’ultimo disco: Baggio, Kurt Cobain...
È una contrapposizione apparente. Sono due canzoni che fanno parte di uno stesso vissuto ma scritte a distanza di decenni. La nostra personalità è cresciuta, sono cambiate le prospettive. ‘Non ci guarderemo indietro mai’ rimane un concetto ancora vivo in noi, per determinati temi. Umanamente, è ovvio guardare indietro, non solo per imparare dal passato, cosa che in Italia, a livello socio-politico, non si fa mai. A livello umano, a 50 anni, è normale gettare uno sguardo a quello che è stato, quello che si è perso e che per fortuna si è anche evitato. È un tirare le somme, un pitstop per ripartire.

Che succederà al Palacongressi?
È la nostra seconda tournée teatrale. La prima volta fu nel 2013. Siamo alla terza tranche e la novità è che nel frattempo è arrivato un altro anniversario, il ventennale di ‘Reset’. Gli riserveremo attenzione particolare, così da chiudere in bellezza. Il futuro, se mai tu avessi in programma la domanda, è un punto interrogativo.

Non era in programma. Ti avrei potuto chiedere: ‘Andate a Sanremo?’, un classico dell’intervista. Ma è tardi.
Ci sono state mosse di avvicinamento. Abbiamo risposto che avevamo da fare.

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