Spettacoli

Io che Giacobazzi lo conosco bene

Un nome d’arte che si deve a Regazzoni e Villeneuve. Il comico romagnolo sabato 11 gennaio a Locarno in ‘Noi, mille volti e una bugia’, l’uomo e la sua maschera

Andrea Sasdelli alias Giuseppe Giacobazzi (foto Luigi Rizzo)
8 gennaio 2020
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Come sta? «Un po’ di raffreddore. La stagione è quella che è, e l’età è quella che è, un po’ cagionevoli di salute si è per forza di cose». E la sua maschera? Come sta? «Giuseppe? Lui sta sempre bene. Non può stare male. Stiamo viaggiando verso Merano». E chi guida dei due? «In verità nessuno, guida un altro».

L’ironia di bassissima lega alla quale si è forzatamente prestato Giuseppe Giacobazzi era per introdurre ‘Noi, mille volti e una bugia’, il dialogo tra l’uomo e la sua maschera dopo oltre venticinque anni di convivenza che arriva al Teatro di Locarno sabato 11 gennaio alle 20.30, per decisione della GC Events (www.biglietteria.ch). Tra rimandi letterari – Orwell, Wilde, Pirandello – e storie di vita vera legate a un mondo cambiato alla velocità della luce, il comico romagnolo già stella di Zelig porta in scena un ritratto per il quale scomodare Dorian Gray è un attimo, una volta preso atto che ad invecchiare, questa volta, è l’uomo...

Giacobazzi, l’uomo e la maschera.

Sì, ‘Mille volti e una bugia’ sono le maschere che indossiamo ogni giorno per rapportarci agli altri, per non farci prendere dallo sconforto e picchiarci selvaggiamente, cosa che il nostro istinto ci farebbe fare. Spesso, per gestire una paura, per accettare qualcuno che non ci va ma ci viene imposto dall’alto, mettiamo la maschera. La bugia è la conseguenza.

E lei, di bugie, ne ha dette tante?

A fin di bene sì. Voglio pensare che siano state bugie positive, mai cattive. Non ho mai mentito spudoratamente, e se ho peccato, erano tutti peccati veniali. L’attore ne dice per forza, di bugie, e sono belle, ci servono, ci fanno bene. L’attore deve colorare, un po’ deve esagerare. Eccola la bugia a fin di bene. Sul palco però racconto cose vere, che sembrano fantasie, ma sono invece esperienze vissute in prima persona.

Sul palco racconta anche di una maschera che lei ha odiato...

È quella di quando cominci ad avere successo, cosa che mi è capitata con Zelig, un’esperienza che ti dà grande esposizione mediatica. Cominci a non avere più tempo per nient’altro, ti fai prendere dal giro, trascuri la tua vita privata, gli interessi, gli amici. Devi avere il coraggio, a un certo punto, di fermare la giostra e riprenderti i tuoi tempi. Anche perché il tempo passato non te lo ridà nessuno.

Il volto che preferisce di sé?

Adesso mi ‘preferisco’ abbastanza. Mi è cresciuta una barba che non mi era cresciuta in tanti anni, voglio pensare che sia una fase ritardata dello sviluppo [ride, ndr]. A 56 anni magari è un po’ tardi, ma mai dire mai.

Lei di cognome fa Sasdelli, quasi uno scioglilingua. La necessità di un cognome d’arte risulta chiara. Ma come mai ‘Giacobazzi’?

La scelta è legata al mondo dei motori. Credo di essere stato uno dei più grandi tifosi di Clay Regazzoni. Tanto per intenderci: il casco della Jebs Helmet con la croce bianca su fondo rosso io ce l’ho avuto. Nel 1974, quando Clay arrivò dietro Fittipaldi, non dico che piansi ma di certo m’innervosii parecchio. Davanti alla tv in bianco e nero, perché quella a colori ce l’avevano solo i ricchi. Dicevo che da sempre sono appassionato di motori. Nel periodo in cui serviva un cognome per il mio personaggio, la tuta di Jilles Villeneuve aveva tra gli sponsor la Giacobazzi [storica azienda produttrice di lambrusco e spumanti italiani, ndr]. Mi parve suonare benissimo con Giuseppe, il nome che avevo scelto, che mi sembrava il più comune di tutti. L’armonia è stata tutt’uno con la mia passione.

Che è una delle due passioni principali degli uomini, stando a Giacobazzi: 'I motori e la patacca’...

Diciamo che è sempre un bel mix. Io dico sempre “Donne e motori, dolori e dolori”, che un dolore, alla fine, arriva sempre.

Tornando alla Ferrari: più tardi nel tempo, il tifo si è spostato dalle auto alle moto, fino alla Ducati...

Negli anni Settanta seguivo tutto il mondo motoristico. L’incontro con Ducati è avvenuto negli anni 90. Ne provai una e mi resi conto che non ero capace di guidarla. Mi dissi che le alternative erano due: o io sopra una moto ero diventato scarsissimo, o quella era una moto ignorante. In realtà erano entrambe le cose: la moto è molto ignorante di suo, anche il romagnolo è ignorante, quindi ignorante-più-ignorante era una gara di ignoranza. Io dico sempre che un romagnolo, quando scatta la gara d’ignoranza, non può arrivare secondo, se la gioca sempre tutta per arrivare primo [ride, ndr].

Ma lei, alla moto, ci parla come fa Valentino Rossi?

Sì, delle volte ci parlo. Non le dico cose sempre belle, ma le ho sempre riconosciuto la realtà che tra i due quello scarso sono io. Se non sei capace di guidarla, devi prendertela solo con te stesso. Col tempo ho imparato a dosare il gas e a divertirmi, perché tanto la prestazione non uscirebbe comunque. Quando accompagno i nostri piloti ai gran premi e li vedo tornare ai box distrutti dalla fatica, dopo aver sfrecciato a 350 all’ora in fondo a un rettilineo a far la curva, mi rendo conto che sono veramente dei fenomeni.

Una delle sue ultime maschere è il manager di una formazione di folk romagnolo in ‘Tutto liscio’, film del 2019 nel quale compare anche il re della ‘musica solare’, Raoul Casadei: ma cos’hanno mai i romagnoli che mettono sempre tutta questa allegria? È ancora un fatto di mare?

Intanto “mare” è una parola molto grossa. Diciamo che in Romagna abbiamo ottimizzato tutto ciò che avevamo a disposizione. C’è positività, c’è voglia di fare, c’è ottimismo. Si cerca di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e mai quello mezzo vuoto. Voglio citare il poeta Gianni [Tonino Guerra nello spot-tormentone, ndr], quando diceva che l’ottimismo è il profumo della vita. Ed è proprio di questo che si tratta.

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