Mostra del Cinema di Venezia

Marhoul, Andersson, Egoyan: un concorso fremente

Dalla Laguna, il viaggio iniziatico di un bimbo ebreo salvato dallo sterminio, l'incomprensione padre-figlia in un mondo di messaggini e una panchina leopardiana

Vaclav Marhoul, a destra, con l'attore Petr Kotlar (Keystone)
3 settembre 2019
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Intensa giornata di Concorso a Venezia, con il film più lungo della competizione (169’), ‘Nabarvené ptáče’ (The Painted Bird) del praghese Václav Marhoul, e il più corto (76’) ‘Om det oändliga’ (Sull’infinito) dello svedese Roy Andersson, già vincitore al Lido; buon terzo il canadese ‘Guest of Honour’ di Atom Egoyan, uno che ha già oltre cinquanta premi in carriera compresi Cannes, Berlino e Locarno, ma mai a Venezia, se non un premio minore.

‘L’uccello dipinto’ è tratto dal famoso romanzo omonimo di Jerzy Kosinski e racconta in bianco e nero a 35 mm il drammatico viaggio iniziatico di un bambino ebreo che il padre ha consegnato a un’anziana donna per salvarlo dai campi di sterminio. Siamo nell’Europa dell’Est della seconda guerra mondiale, una terra selvaggia e primitiva con i nazisti che consideravano abitata da popolazioni d’intelligenza inferiore. E il film mostra questa Europa minore che fa da cuscino tra l’occidente e la Russia, una terra in cui si compirono efferati e indimenticabili delitti che restavano legati a un’atavica e misera condizione di miseria agricola, sconosciuta all’Europa occidentale. Ecco allora il giovane protagonista che, morta la donna, trova protezione da parte di un prete cattolico che lo affida a un contadino; che a sua volta lo stupra e abusa di lui finché il ragazzo trova il coraggio di ucciderlo e cominciare un cammino atroce, fatto di incontri di volta in volta con soldati di varie ideologie, con una giovane donna che, incapace di trovare in lui un amante, si accoppia con un caprone, e nequizie del genere in un caleidoscopio di violenza chiuso dall’incontro con il padre salvatosi dai campi di sterminio e con il ritrovare un nome, il proprio. Gran film necessario in questa Europa dimentica dell’inaudita violenza nazifascista e degli oltre venti milioni di sovietici morti per salvare la libertà europea. Si resta sconvolti da un dire sincero e ci si chiede perché tutto è stato dimenticato. 

Sul nostro tragico oggi plana invece Roy Andersson con il suo ‘Om det oändliga’ (Sull’infinito) che si apre leopardianamente con un uomo e una donna da una panchina vicino a una siepe che scrutano il paesaggio al di là di questa. Così come nello Zibaldone del recanatese, il regista svedese raccoglie una grande quantità di appunti, riflessioni e aforismi per regalare allo spettatore la possibilità di riflettere sul suo destino quotidiano e sulla Storia che lo ha determinato. Siamo di fronte a un film di eccelsa qualità cinematografica e morale, a un film che regala insieme ai pensieri i sorrisi, ma sempre in nome di una civiltà eticamente umana oggi scomparsa o dimenticata, e che questo cinema, non mainstream ma vero, richiama come dovere e non come un qualsiasi divertimento. Sarà ancora Leone d’Oro?  Dopo quello con ‘Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza’ (2014), forse merita anche il secondo, e per un regista settantaseienne come Roy Andersson, sarebbe veramente un gran premio.

Meno abbagliante ma lo stesso profondo come linguaggio e temi affrontati è il denso e spiazzante ‘Guest of Honour’ dell’armeno naturalizzato canadese Atom Egoyan. La nota biografica aiuta a penetrare in un mondo mai completamente occidentalizzato qual è questo di un regista nato quasi sessant’anni fa al Cairo. Qui ci dice di Jim e della figlia Veronica, due esseri umani intrisi di dolorose solitudini, incapaci di comprendersi e di accettarsi, chiusi in un io che ce li rende compagni in questo mondo di frantumati esseri comunicanti attraverso messaggini, incapaci di discorrere veramente. Un film di ombre, di oggi intrisi di rinnegate radici, e se la lontananza tra padre e figlia è dettata dalla morte della madre/moglie – e da quella dell’amante di lui, amante voluta dalla consorte morente, morte segnata dalla gelosa figlia, morte che genera il suicidio di un figlio innamorato di lei ma incapace di perdonarla – nessuna vicinanza sarà mai possibile. E alla figlia piena di colpe non resta che chiudersi in carcere per un delitto confessato e mai commesso, quello di una storia d’amore, lei musicista e direttrice di una piccola orchestra con un suo allievo minorenne. Film d’intrighi ma non intricato questo, fatto di grosse e piccole emozioni, capace di coinvolgere in quel mondo fragilmente autunnale in cui ci conducono il pesante fardello di un telefonino e la vacuità di parole come amicizia, rispetto, famiglia. Questo è cinema.

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