Cannes

Once upon a time… Tarantino

Un film paccosamente lungo e insulso, celebrazione di un solipsismo insopportabile nonostante un sanguinolento finale da risate piene

© Keystone
22 maggio 2019
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Fare la fila per ore, c’è chi ha cominciato la mattina alle nove per provare a entrare a una proiezione alle 16.30, questo è il potere di un prodotto “Quentin Tarantino”, diventato icona di se stesso e capace di raccontare nulla e di ricevere smisurati encomi, purtroppo per lui questo suo nuovo film.
“Once Upon A Time… In Hollywood”, pur tanto aspettato, ha visto una piccolo fuga di pubblico annoiato lasciare brontolando la sala ben prima del termine di un film paccosamente lungo e insulso. Qualcuno ha parlato di film diesel per spiegare l’inutilità più assoluta della celebrazione di un solipsismo insopportabile nonostante un sanguinolento finale da risate piene.

Eppure l’idea non era male, rivisitare Los Angeles in quell’estate del 1969 che ne cambiò il destino con il barbaro assassinio di Sharon Tate nella sua casa di Cielo Drive, insieme a quattro amici. Un massacro perpetrato dai seguaci del criminale Charles Manson. Ma il plot del film è altro: i protagonisti sono Leonardo DiCaprio-Rick Dalton, attore americano di non primo piano, ispirato alla vita di Burt Reynolds, compresa la sua love story con Nicoletta Machiavelli. Qui il nostro DiCaprio arriva a Roma per girare un fantomatico “Nebraska Kid”, nella realtà “Navajo Joe” di un Sergio Corbucci sempre omaggiato come secondo dietro all’innominabile Sergio Leone. Con lui Brad Pitt come Cliff Booth, il suo fidato stunt double, ovvero quello di Reynolds che fu con lui nel celebrato “Un tranquillo weekend di paura”, di John Boorman. Tarantino, evidentemente servo del contratto con i due attori, riserva a ognuno un eguale tributo della potenza attoriale, anche a costo di lunghissime inquadrature dedicate alla guida d’auto, al pianto paternalistico, al nutrire il proprio cane.

Ci sono nel film momenti imbarazzanti per lo spettatore costretto a seguirli, soprattutto per l’ideologia di fondo di un film che riclassifica il massacro di Sharon Tate e quel tempo in una criminalizzazione tout court del mondo hippy, come se quel mondo di idee non fosse altro che anticipatore di un massacro ben più grave, quello dell’Aids. Tarantino però fa il suo cinema, pieno di citazioni parcellizzate che insieme a meritargli gli applausi dei fan, sconvolgono gli addetti ai lavori per la loro fragilità e superficialità. 

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