TICINO7

Cristina Castrillo: il teatro come resistenza

‘Un po’ cani randagi, un po’ abitanti di una città invisibile. Credono che la vera sfida non sia vincere, ma non darsi mai per vinti’.

(Ti-Press)
8 settembre 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

«Ci sono due domande che sono diventate ormai una specie di consuetudine e che mi buttano nel più mortale sgomento: perché ho scelto di fare teatro e perché ho deciso di vivere in Svizzera». Leggo queste parole sul suo ultimo libro ‘Tracce’ (Ed. Ulivo, 2015) e ripensando al nostro incontro di un paio di giorni prima provo un certo imbarazzo nel dover annoverare tra queste voci anche la mia: sono esattamente le prime due cose che ho chiesto a Cristina Castrillo. Ma poi torno al sottotitolo in copertina, Mappa di un mestiere, e mi rendo conto che ha dedicato quasi 200 pagine – bellissime – a cercare di rispondere proprio a questi due quesiti. La sua frase si spoglia allora del tono estenuato e rivela come questa donna, dal coraggio eccezionale e dalla grande ironia, tragga linfa vitale e creativa dall’occupare posizioni scomode da cui interrogarsi su se stessa e il mondo.

La via dell’esilio e un lago in cui specchiarsi

Attrice, regista, scrittrice e pedagoga, nel 1980 è approdata a Lugano dove ha fondato il Teatro delle Radici, che da allora dirige resistendo «sempre più ai margini» della politica culturale ufficiale. Cristina a soli 25 anni ha dovuto prendere la via dell’esilio da quell’Argentina che le aveva dato un suolo su cui crescere e che in quel momento aveva iniziato a inghiottire lei e tutta la sua generazione, infine uscita tremendamente mutilata dalla ferocia di una dittatura responsabile, tra il 1976 e il 1983, di qualcosa come 40mila morti e «desaparecidos». In quel periodo, con una voragine nel cuore, dopo aver sostato in alcuni Paesi con la valigia mai disfatta, arriva a Lugano per rappresentare il suo primo spettacolo individuale. Con un caratteristico accento spagnolo e una ricchezza espressiva che conquistano immediatamente, ricorda: «Allora sapevo solo due parole di italiano – buongiorno e buonasera –, ma appena arrivata qui ho percepito la sensazione di stare bene con me stessa. Avrei avuto molte più opportunità a Roma o a Milano, ma ero attratta da una dimensione più piccola. Più che un ragionamento è stata una condizione interiore, mi piaceva la calma e soprattutto l’acqua: per me era meraviglioso pensare che il lago fosse lì a pochi passi. Ma solo dopo diverso tempo ho capito che stavo rimanendo».

Cambia todo cambia, soprattutto le domande

Nel corso di quasi 40 anni in città, ha dato vita a una trentina di spettacoli, contribuendo a formare la cultura e l’identità del territorio, muovendosi anche tra le sue contraddizioni. Con un «linguaggio teatrale dall’orientamento etico» (come lo ha definito la giuria del Premio svizzero di teatro conferitole nel 2014) ha affrontato temi fondamentali come violenza, memoria, amore, solitudine, perdita, migrazione, morte, mostrando una straordinaria capacità di intrecciare riferimenti intimi con grandi questioni universali. «Non ho mai messo in scena opere d’autore, solo autoproduzioni, e di volta in volta mi interrogo sul come e il perché. Non mi pongo nuovi obiettivi, ma nuove domande, e talvolta arrivo a una risposta quando già la domanda principale è cambiata».

Scavando come un lombrico

Le chiedo cosa la animi e la spinga a continuare nel difficile tentativo di seminare su nuovi terreni. La prende alla larga («detesto le frasi fatte») per darmi una spiegazione articolata e ad ampio respiro: «Il mio è un teatro che non c’entra con l’apparire, col mercato. Sono molto legata al concetto di radici perché ha a che fare con quello che non si vede ma è fondamentale; implica che i frutti che maturano, le foglie che crescono, si reggono perché c’è qualcosa di sotterraneo». E lei ama scavare nell’humus: «I miei attori dicono che sono un lombrico, anche per il mio fisico – ride –.
Il materiale fondamentale del mio lavoro è costituito dall’interiorità, dalla memoria e dalle esigenze di chi partecipa alla creazione degli spettacoli». Fa un passo indietro: «Io vengo dalla cultura del teatro sudamericano di gruppo – nel 1970 con dei compagni espulsi come lei dall’università fonda il Libre Teatro Libre –. Come mai prima d’allora, vi era la necessità di incontrarsi e confrontarsi, di fare spettacoli che fossero il riflesso della nostra circostanza e lo specchio critico di una società martoriata. Per noi era fondamentale rivolgerci agli strati della popolazione dimenticati, creare appartenenza; la gente ci adorava, la facevamo divertire da matti e al contempo riflettere». E con un grande sorriso che le illumina il volto mi racconta: «Dopo 30 anni dallo scioglimento di questa compagnia, abbiamo organizzato un incontro in Argentina. Arrivata in città prendo un taxi e succede una cosa incredibile: l’autista mi guarda e mi dice: ‘Lei è del Libre Teatro Libre! Mia mamma mi portava sempre ai vostri spettacoli da piccolo. Spesso mi doveva far uscire perché piangevo dal ridere e una volta mi sono quasi strozzato’. In quel momento ho scoperto che molti avevano nascosto le fotografie degli spettacoli, salvandole dai rastrellamenti militari e dal fuoco in cui avevamo gettato gli archivi per precauzione». Con trasporto arriva al punto: «La gente ha preservato qualcosa che sentiva profondamente importante, non perché eravamo famosi, ma perché si emozionava, si riconosceva nel nostro lavoro che dava voce a chi non l’aveva. Sapere che questo prezioso pezzo di storia teatrale, culturale e umana è stato tramandato spontaneamente, è uno dei frutti migliori che io abbia colto, e ciò mi dà la forza di proseguire».

Dalla parte del femminile, ma…

Questa sua particolare attenzione per chi è imbavagliato dalla storia l’ha portata in diversi suoi spettacoli a indagare il punto di vista delle donne, ma quando le chiedo se si definisce femminista è titubante: «Mi importa il mondo del femminile, molto, perché mi importano coloro che lottano per avere uno spazio per essere. Ma, così come ho fatto spettacoli con solo donne, ho anche fatto uno spettacolo solo con maschi, proprio per tentare di riflettere sui miei pregiudizi». Continua: «Io difenderò sempre la problematica del femminile, ma non in contrapposizione. Il mondo del maschile necessita di un processo culturale, interiore, urgente, perché esiste una brutalità altissima; però non gli si possono chiudere le porte in faccia. Nel mio lavoro rifuggo la denuncia per la denuncia, indago senza mai partire da dichiarazioni di principio».

Aprire buchi nel muro

È evidente, Cristina sceglie le parole con cura, non si veste di etichette. Nella vita come nel teatro – per lei è questione di lealtà – non è per gli slogan che appiattiscono la complessità, cerca incessantemente una particolare forma espressiva che si adatti a ciò che vuole trasmettere, «per aprire buchi nei muri»… Le domando se in questo periodo di recrudescenza dell’ostilità verso il diverso e di innalzamento di nuovi steccati, secondo lei esistano realtà con al centro l’essere umano, esempi di giustizia sociale. Risponde citando Ungaretti: «Cerco un paese innocente»... Sottintendendo: e non lo trovo. «Nazioni no, ma esistono isole (e forse il nostro piccolo teatro ne è un esempio) che propiziano la riflessione sui rapporti e i valori umani, sul modo di convivere, cercando di far coincidere parole e azioni, incitando a prendere posizione».

Tra tutto quanto di prezioso mi ha lasciato questo incontro, una cosa in particolare mi ha colpita: la consapevolezza e il senso di responsabilità con cui Cristina occupa un posto nel mondo. Nonostante tutto quello che ha passato – o proprio in virtù di ciò: «Non abbiamo il diritto di infrangere e tradire la necessità di vivere solo perché siamo stati costretti ad abituarci alla morte».

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