Società

Il linguaggio inclusivo non è una neolingua orwelliana

Lo psicolinguista Pascal Gygax, ospite l’8 marzo della rassegna Generando, sul rapporto tra linguaggio e pensiero e la dimensione politica della lingua

7 marzo 2022
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Linguaggio inclusivo. Un semplice termine che quasi certamente susciterà, in chi lo legge, due reazioni opposte: l’approvazione per un necessario passo verso la parità oppure l’irritazione per un’inutile imposizione, aprendo la strada a una discussione anche accesa.

L’idea di linguaggio inclusivo – che si parli di schwa, la e rovesciata "ə" che alcuni propongono di usare per un gruppo misto di persone al posto del plurale sovraesteso e per le persone non binarie, o di mettere al femminile nomi di professioni come avvocata e architetta – tocca temi molto dibattuti, dalle trasformazioni della nostra società alle differenze di genere al rapporto tra linguaggio e pensiero. Proprio da quest’ultimo punto partirà Pascal Gygax, psicolinguista dell’Università di Friburgo che domani alle 18 al Centro professionale di Trevano terrà la conferenza "Che genere di linguaggio?" nell’ambito della rassegna Generando del Percento culturale Migros (www.generando.ch). La domanda è se parlando una lingua con al centro l’uomo e non la donna – come sono ad esempio il francese e l’italiano – il cervello pensi al maschile, domanda che per altro fa da titolo al libro che Gygax ha scritto con Sandrine Zufferey e Ute Gabriel (‘Le cerveau pense-t-il au masculin? Cerveau, langage et représentations sexistes’, pubblicato da Le Robert).

«Il rapporto tra linguaggio e pensiero è al centro del lavoro della nostra équipe qui a Friburgo, non solo relativamente al genere ma anche ad esempio alla percezione del futuro» ci spiega Gygax.

Il punto di partenza di queste ricerche è molto semplice: «Il linguaggio presenta un numero limitato di opzioni per parlare di un mondo che è invece illimitato. Il linguaggio va quindi ad attirare la nostra attenzione su alcune proprietà del mondo che non sono necessariamente pertinenti». Il linguaggio agisce quindi come una sorta di filtro su quello che percepiamo e pensiamo. All’inizio del Novecento, prosegue Gygax, alcuni antropologi sostenevano una posizione più netta: «Secondo Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf il linguaggio determina il nostro pensiero e ad esempio per Sapir se una popolazione ha solo due parole per i colori, allora quella popolazione vedrà solo due colori». Questa tesi è stata oggetto di molti dibattiti e benché ci siano delle ricerche molto interessanti sull’influenza del linguaggio sulla percezione dei colori, l’idea di un determinismo diretto è oggi superata. «A Friburgo partiamo dall’idea che il linguaggio sia un filtro attenzionale, in grado di attirare la nostra attenzione su certe proprietà e non altre». E per mostrarci come agisce questo filtro Gygax ci ha anticipato uno degli esperimenti di cui parlerà domani: un regalo in denaro. A metà dei soggetti il dono è stato descritto come "una piccola moneta", all’altra metà solo come "una moneta" e la felicità tra i primi era inferiore di quella tra i secondi. «La stessa realtà, la stessa moneta uguale per tutti, è stata percepita diversamente perché la parola "piccola" ha attirato l’attenzione su una certa proprietà di quella moneta, il suo essere piccola». Dalle monete al genere, un linguaggio in cui il maschile è la norma «non cancella le donne dal mondo, ma ci fa pensare a un mondo con una maggiore presenza maschile» perché rende l’interpretazione maschile «più facile, più rapida, mentre pensare a una donna richiede un certo sforzo».

George Orwell e l’Académie Française

Torniamo per un momento al determinismo sostenuto da Sapir e Whorf: quelle idee, ci spiega Gygax, hanno profondamente influenzato George Orwell e la neolingua di ‘1984’ è spesso citata dai critici del linguaggio inclusivo. «L’idea era che se togliamo la parola "libertà" allora non si potrà più pensare alla libertà: non è vero, potremmo ancora pensare alla libertà anche se, probabilmente, saremmo meno esposti a questa idea, la noteremmo meno».

Il riferimento a Orwell evoca poi l’uso politico del linguaggio ma, avverte subito Gygax, non si tratta certo di una novità. «Storicamente a un certo punto parole come "autrice" e "professoressa" sono scomparse dal dizionario dell’Académie Française e questo per un motivo politico: si voleva segnalare alle donne che quelli non erano professioni per loro, mentre altre sì e infatti "panettiera" è rimasta nel dizionario. Le autrici e le professoresse non sono ovviamente scomparse, ma per loro è stato più difficile».

Che cosa significa in concreto adottare un linguaggio inclusivo? «Ci sono vari strumenti a disposizione, ma lo scopo rimane sempre lo stesso: demascolinizzare la lingua. Questo possiamo farlo mettendo in evidenza le donne, oppure cercando di rendere neutro il linguaggio togliendo riferimenti al genere». È ad esempio possibile dire "le cittadine e i cittadini" invece di utilizzare il maschile per le une e gli altri. Per rendere neutro il linguaggio, abbiamo termini (come "persona") che si riferiscono a entrambi i generi, o usare espressioni come "voi che leggete" invece di "i lettori". E introdurre nuovi pronomi neutri? «È possibile, tutto dipende se le persone lo useranno, come successo ad esempio in Svezia con il pronome ‘hen’ che nel 2012 è stato utilizzato in un libro per l’infanzia, è diventato popolare e pochi anni dopo è stato inserito del dizionario dell’Accademia svedese».

Utilizzare un linguaggio inclusivo è quindi possibile. E anche utile: «Alcuni studi su struttura grammaticale e livello di inclusione mostrano che c’è un legame», spiega Gygax, anche se non dobbiamo pensare che il linguaggio sia l’unico fattore in gioco. «Nessuno ha mai detto che il linguaggio possa da solo eliminare tutte le ineguaglianze. Del resto neanche la parità salariale eliminerà tutte le ineguaglianze, ma questo non la rende meno importante».

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