Società

Poesia come corrispondenza

Intervista a Yari Bernasconi in occasione dell'uscita di 'Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza'

Foto Yvonne Böhler
(Yari Bernasconi)
10 febbraio 2020
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Ecco, vorrei scriverti questo: tu conosci / il materiale. Sai quanto è porosa la vita, / quanto larghe e irregolari le macchie d’olio, / l’ombra del movimento sconosciuto / di nebbie o di fumo. Il bianco è una cornice / da sporcare. (…)
La poesia può muover vela anche nella forma della corrispondenza, poi il testo può altresì liberarsi dalla sua sede originaria e riproporsi come poesia a sé stante. Ne dà valida prova Yari Bernasconi nella sua ultima plaquette, Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza (uscito nel 2019, per la casa editrice L’arcolaio), sorprendente silloge poetica poiché nei suoi relativamente pochi componimenti – complessivamente 20 e posti in una calibratissima sequenza – l’autore ci consegna una raccolta tanto organica quanto circolare.
Sin dall’esordio poetico l’autore luganese, classe 1982, avvenuto nel 2009 per Alla chiara fonte con il poemetto Lettera da Dejevo – lavoro poi collocato in apertura di Nuovi giorni di polvere (Casagrande, 2015) – nei titoli delle sue produzioni si contemplano con frequenza richiami alle forme epistolari. Duplice ora il riferimento nella nuova plaquette: Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza. E anche le tre sezioni interne recano titoli ancorati a questa stessa forma di comunicazione: Cinque cartoline dal fronte (intorno a Ponte Tresa), Altra corrispondenza e Dieci lettere dal futuro (frammenti). Ma quale significato assegnare invece al termine decisamente evocativo, “fronte”, contenuto nel titolo?
«Il “fronte” in questo caso è semplicemente la frontiera», afferma Yari Bernasconi, «e più in particolare quella zona liminare dove sono cresciuto, a Caslano, a ridosso della frontiera di Ponte Tresa. L’Italia era a pochi passi e ci si andava settimanalmente. La frontiera per me è stata sempre un naturale luogo di transito. I cinque testi che compongono la prima sezione sono però nati nel quadro di una manifestazione alle Giornate letterarie di Soletta, che chiedeva di scrivere sul tema della guerra o su un conflitto socio-politico: ho scelto un po’ provocatoriamente il conflitto meno spettacolare che mi venisse in mente».
D’altra parte questo “fronte” assume nella lettura dell’intera plaquette significati molteplici e quello del conflitto è un tema che rimane sullo sfondo, costituendo una sorta di fil rouge. Nella prima delle tre sezioni della silloge poetica si evoca l’emblema dei confini attraverso precisi toponomi: Svizzera, Italia, Lavena, Ponte Tresa, Luino con un’eco implicita a Vittorio Sereni; la sezione di mezzo è costituita appunto da corrispondenze, i cui destinatari – come chiariscono le note in chiusura – sono reali.
La terza sezione, costruita attraverso brevi inserzioni prosastiche, racchiude e riproduce un dialogo fra un uomo e una donna in conflitto, al cui centro si trova del resto un figlio conteso, in una dimensione volutamente fantascientifica, da cui il titolo, Dieci lettere dal futuro (frammenti), e la citazione di Ray Bradbury in esergo. Alla fine si ripongono le “armi”: la donna, nella sua ultima lettera, lascia cadere la penna e chiede di fare altrettanto al suo interlocutore.

Attraverso venti componimenti il poeta luganese ci consegna una raccolta organica e circolare

«Il legame con il passato e con la storia è indissolubile», osserva Yari Bernasconi. «E tuttavia mi interessa poco selezionare un momento del passato e ricamarci sopra un po’ di letteratura. Guardare indietro è interessante quando l’esplorazione ha un’influenza diretta sul presente, e ancora può dirci qualcosa del futuro, spingerci a riflettere, insegnarci qualcosa. Senza dimenticare che non ci sono risposte definitive: tutto continua e continuerà a oscillare». Al centro della raccolta, una poesia sull’Europa assume particolare rilievo: Forse hai persino ragione: l’Europa / unita non è che un disordine di desideri. / E quindi? Ti sembra davvero abbastanza / per mostrare i tuoi denti bianchi, ridere, / ripetere il sermone del modello svizzero? / Dimenticando di dirci chi sei e da dove vieni / veramente. Dimenticando quello che dà vita / alla vita: l’incerto, l’impuro, l’impossibile.
E sempre nella parte centrale, corrispondenze. «Questa è anche la parte più variegata della raccolta, sebbene siano solo cinque testi. Ma è il fascino della corrispondenza, che assomiglia alla vita: lettere, cartoline, biglietti e molti altri supporti per una grandissima varietà di testi, dai temi ai toni, che si fanno nel breve volgere di un paragrafo più o meno sentimentali, emotivi, politici, rabbiosi... E questo mi piace molto».

L’uso alternato di pronomi relativi e aggettivi possessivi offrono subitanei cambi di prospettiva

«Se nelle note ho svelato i nomi propri dei destinatari delle mie lettere – prosegue Yari Bernasconi – è anche per evidenziare lo strettissimo e diretto legame con la realtà, che reputo sempre necessario. La poesia è una declinazione della vita. È un linguaggio con le sue peculiarità, né migliore né peggiore degli altri, e come tale cerca di raccontare, di dire il mondo fuori e dentro di noi. Altrimenti ci troviamo nell’esercizio stilistico fine a se stesso, che per me, francamente, per quanto mi riguarda, non ha alcun interesse. A parte qualche luminosa eccezione, beninteso, ma si parla di scrittori attraversati da una genialità senza pari, come può essere il caso di Giovan Battista Marino, che su una vicenda risolvibile in poche pagine ha realizzato uno dei poemi più lunghi della storia letteraria: L’Adone».
Una delle cifre stilistiche di Yari Bernasconi risiede nell’uso alternato dei pronomi personali – come pure degli aggettivi possessivi, espressioni che all’interno degli enunciati “muovono” la situazione spazio-temporale e conferiscono talora un subitaneo cambio di prospettiva, che contribuisce ad aprire lo sguardo verso il mondo. Proprietà, queste, già riscontrabili nelle prime prove poetiche dell’autore. In Uno scorcio, contenuto in Non è vero che saremo perdonati (Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2012) e poi in Nuovi giorni di polvere, la chiusa suona significativamente così: Non potrai non vedere l’agonia delle vostre speranze, / del nostro mondo.
Osserva dal canto suo l’autore: «Per essere sincero, la gestione dei pronomi nei miei testi rispecchia anche la difficoltà e l’imbarazzo che incontro talvolta nel pronunciare “io”, o altre volte “noi”. Esiste anche un atto di superbia nello scrivere: se decidi di pubblicare è perché – più o meno coscientemente – credi di avere qualcosa di interessante da dire. È una cosa con cui convivo faticosamente. Certo, il “noi” mi piace molto, è persino rassicurante, ma non è meno problematico e delicato, visto che utilizzandolo ci si arroga – almeno in parte – il diritto di parlare per gli altri. E in generale, ogni volta che indichiamo un “gruppo” (pure col “voi” o con il “loro”) bisogna prestare attenzione, perché il rischio è di scadere nella superficialità, indicare apparenti comunità, appartenenze e movimenti come se potessimo racchiuderli in un insieme e definirli chiaramente, come se i loro confini fossero netti, mentre il più delle volte tutto è poroso, permeabile, meravigliosamente impuro…»

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