Società

Make Star Wars Great Again

Per quarant’anni Guerre stellari ha raccontato la società statunitense. Adesso la subisce

31 dicembre 2019
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‘Star Wars: l’ascesa di Skywalker’ continua a far discutere, tra estimatori e detrattori del film diretto da J.J. Abrams. E il dibattito non è più soltanto cinematografico: la saga di Guerre stellari non è solo un (redditizio) marchio dell’industria dello spettacolo, ma ha nel corso degli anni assunto tutti i caratteri del mito moderno, negli Stati Uniti e non solo.

Non si tratta dunque solo di un racconto fantasy/fantascientifico, ma di “una narrazione simbolica delle origini”, in altre parole una storia che ci dice chi siamo, da dove veniamo e dove potremmo andare. È stata la grande intuizione di George Lucas, il creatore della saga (e, oggi che il marchio è di proprietà della Disney, figura marginale): una storia di fantascienza ambientata “tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”, con una trama apparentemente ingenua in realtà sapientemente costruita riprendendo gli studi di Joseph Campbell sulla mitologia, dal viaggio dell’eroe alla lotta tra bene e male.

Non deve stupire, quindi, che ogni nuovo film – e quello da poco nelle sale chiude l’arco narrativo iniziato 42 anni fa – crei forti aspettative e altrettanto forti delusioni: è una questione di identità. Del resto, come si reagirebbe in Svizzera di fronte a un ‘Guglielmo Tell Episodio I’ in cui si scopre che da giovane Tell era stato istruito all’uso della balestra da un re danese o a un ‘Episodio X’ in cui si scopre che il figlio Gualtierino è in realtà discendente degli Asburgo? Insieme ad acidi commenti verso la Friedrich Schiller Ltd – detentrice, nel nostro esperimento mentale, di tutti i diritti sul marchio Wilhelm Tell –, molto probabilmente cercheremmo interpretazioni politico-sociali di queste bizzarre riletture. E così avviene negli Stati Uniti (e non solo) in questi giorni, dove ‘Star Wars: l’ascesa di Skywalker’ si affaccia nelle colonne di editoriali e commenti di quotidiani come il ‘New York Times’.

L’imperatore Richard Nixon

Perché un altro modo di pensare al mito è come una storia senza tempo che proprio per questo ci aiuta a comprendere il nostro, di tempo. Così nel 1977, quando il primo film arrivò nelle sale, era facile vedere nel malvagio Impero galattico quello che gli Stati Uniti di Richard Nixon (dimessosi pochi anni prima) e del Vietnam stavano diventando, mentre l’Alleanza ribelle rappresentava inevitabilmente i valori più autentici di una nazione nata dall’insurrezione contro un regime lontano e dispotico al grido di “Libertà o morte!”. Almeno secondo Lucas e i valori in cui lui – e la Hollywood degli anni Settanta – si riconosceva durante la presidenza democratica di Jimmy Carter, arrivata dopo gli otto anni repubblicani di Nixon e Ford.

Una visione in cui – va detto – l’eroe non può che avere la pelle bianca: l’unico attore nero del primo film è James Earl Jones, e neanche lo si vedeva perché era semplicemente la voce originale di Dart Fener (sotto la cui armatura si trovava invece l’ex culturista David Prowse).

Una circostanza che oggi stona, pensando non solo alla diversità di specie aliene che vediamo nella taverna di Mos Eisley (i fan ne hanno contate una trentina) ma anche alla plancia dell’Enterprise dell’altro grande franchise fantascientifico, Star Trek di Gene Roddenberry, dove già una decina di anni prima avevamo un asiatico e una donna nera.

Ma appunto stona oggi: allora era normale e la trilogia originale di Guerre stellari è tranquillamente proseguita con questi ideali – e l’arrivo di un altro attore nero, Billy Dee Williams – con il terzo film uscito sotto la presidenza di Ronald Reagan (durante la quale, per un breve periodo, Star Wars divenne il nomignolo del programma militare ‘Strategic Defense Initiative’, ma non funzionarono né il programma né il nome che continua indisturbato a indicare la saga cinematografica).

L’ascesa di George Lucas

Se il primo ‘Guerre stellari’ era arrivato nelle sale all’inizio della presidenza Carter, la seconda trilogia (in ordine di realizzazione) arriva verso la fine del doppio mandato di Bill Clinton. Ed è un disastro: ‘Star Wars: la minaccia fantasma’ è con ogni probabilità il peggior film della serie, infarcito di stereotipi razziali che probabilmente vent’anni prima nessuno avrebbe notato (quanti avrebbero alzato un sopracciglio per un commerciante senza scrupoli che pare la caricatura di un ebreo?) e che George Lucas stesso si è prodigato a negare fermamente.
Ma il film ha perlomeno gettato le fondamenta per una trilogia che – dopo l’elezione di George W. Bush e l’11 settembre – ha ribadito con vigore quei valori di difesa della democrazia e della libertà contro le derive autoritarie che poco spazio trovavano nel dibattito politico. I film raccontano infatti il declino della Repubblica galattica che, per fronteggiare una minaccia esterna, concede sempre più poteri al Cancelliere supremo. Per raccontare l’ascesa al potere dell’imperatore galattico, Lucas si è ispirato a Giulio Cesare, Napoleone Bonaparte e Adolf Hitler – e all’anteprima dell’ultimo film della trilogia, ‘La rivincita dei Sith’ del 2005, ha ammesso che c’erano alcune somiglianze con George W. Bush e la guerra in Iraq. Perché la storia ama ripetersi, certo, ma il passaggio al lato oscuro della Forza di Anakin Skywalker/Darth Vader è segnato dalla frase “Se non sei con me, sei mio nemico” che a molti ha ricordato il “O siete con noi o siete con i terroristi” di Bush.
Va infine ricordato un cast multietnico, per quanto rimanga sempre più facile dare spazio a specie aliene che ad asiatici o latinoamericani.

Arrivano Obama, J.J. Abrams e i russi

Nel 2008 Barack Obama diventa presidente degli Stati Uniti; qualche anno dopo consegna a George Lucas la Medaglia nazionale per le arti ma la saga ormai è in mano alla Disney che annuncia una nuova trilogia, affidata a J.J. Abrams.

I primi due film – ‘Il risveglio della Forza’ del 2015 e ‘Gli ultimi Jedi’ del 2017, ai quali possiamo aggiungere anche il fuori trilogia ‘Rogue One: A Star Wars Story’ del 2016 – uniscono ai tradizionali ideali della saga la nuova sensibilità, con una protagonista femminile e un più che discreto livello di diversità nel cast.

Insomma, a dispetto di alcune debolezze dei film, il mito moderno di Star Wars pare funzionare ancora. Ma qualcosa si è rotto con l’ultimo episodio, appena arrivato nelle sale, il primo – e non è un caso – interamente realizzato con Donald Trump presidente. Non è tanto per i toni un po’ tiepidi con cui vengono portati avanti i temi classici della saga: certo se pensiamo a quel che fece Lucas con Bush il paragone è impietoso, ma nei festeggiamenti conclusivi per la sconfitta del dittatore abbiamo un bacio omosessuale e ci possiamo accontentare. Il vero problema è che lo ‘Star Wars’ targato Disney più che un faro che illumina la società statunitense è diventato uno specchio del dibattito politico fortemente polarizzato. Dibattito dal quale la Disney – che come tutte le major hollywoodiane ormai basa i propri film sulle reazioni del pubblico – non sa o non vuole staccarsi: ‘L’ascesa di Skywalker’ non è più in grado di raccontare le divisioni della società, le diatribe politiche, la sfiducia verso le istituzioni; semplicemente subisce tutto questo. E i commenti velenosi che sui social media hanno investito uno dei personaggi introdotti in ‘Gli ultimi Jedi’ – Rose Tico, interpretata dall’attrice di origine asiatica Kelly Marie Tran – sono probabilmente alla base della decisione di far praticamente sparire il personaggio che ha meno di due minuti di presenza sullo schermo.

Purtroppo, neanche le reazioni paiono uscire da questa polarizzazione: nel pur interessante commento sul ‘New York Times’ (‘Star Wars Fans Are Angry and Polarized. Like All Americans’), Annalee Newitz cita una – peraltro non molto convincente – ricerca secondo cui metà dei commenti critici su ‘Gli ultimi Jedi’ apparsi sui social media sarebbe dovuta ad account fasulli russi, gli stessi che avrebbero interferito con le presidenziali statunitensi del 2016.
Abbiamo bisogno di nuove storie.

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