Società

Nazionalismi cinesi

Intervista a Ilaria Maria Sala, giornalista, scrittrice e cofondatrice del Centro Pen di Hong Kong

Manifestanti pro democrazia al Politecnico di Hong Kong ©Keystone
27 novembre 2019
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Il governo cinese di Xi Jinping reagisce ai mutamenti sociali ed economici con una politica fortemente nazionalista. A farne le spese la popolazione di Hong Kong, abituata a difendere la propria libertà ‘con le unghie e con i denti’, spiega Ilaria Maria Sala, a Lugano per la Giornata dello scrittore in Prigione organizzata dal Centro Pen della Svizzera italiana e retoromancia.

Ilaria Maria Sala, iniziamo dai manifestanti e dalle loro richieste che, contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, non riguardano l’indipendenza dal governo cinese, ma maggiore democrazia.

Sì. L’enfasi sulla secessione e sull’indipendenza è stata messa da Pechino come forma propagandistica per alienare il resto della popolazione dalle richieste dei manifestanti.

I cittadini di Hong Kong si sentono quindi cinesi?

Credo ci sia la tendenza a guardare alla Cina come a un Paese. In realtà è una civilizzazione, per cui ci sono molti modi di essere cinesi: si può essere cinesi a Singapore, si può essere cinesi a Pechino, si può essere cinesi a Hong Kong. Il fatto che io sia europea non vuol dire che debba essere per forza greca, però mi riallaccio a una parte della civilizzazione greca che ha influenzato la mia esperienza culturale.

Il problema è che il governo di Pechino oggi ha invece una visione estremamente nazionalista: Pechino sta cercando di imporre l’idea che essere cinesi equivalga a sostenere il partito comunista e che questa equazione sia l’unico modo di essere cinesi. Hong Kong dimostra che non è vero, Taiwan dimostra che non è vero; molti all’estero però – per pigrizia, per ignoranza, per comodità – sembrano accettare questa visione cinese di creare un’equivalenza tra partito, nazione e cultura.

Ha detto che ci sono molti modi di essere cinesi. Hong Kong e Pechino quanto sono lontane, culturalmente?

Le differenze sono profonde, per molti motivi. Uno è meramente geografico: ci vogliono tre ore e mezza di aereo, tra Pechino e Hong Kong, quindi parliamo di un clima diverso, di un’alimentazione diversa, di una lingua diversa (cinese mandarino a Pechino, cantonese a Hong Kong, ndr). Dobbiamo inoltre considerare che cosa hanno significato, per un pechinese, settant’anni di vita sotto un tipo di regime politico che a Hong Kong non è mai esistito. E la Cina comunista ha avuto una guerra con la cultura cinese: pensiamo alla rivoluzione culturale e alla sua sistematica distruzione del passato cinese, che fosse letterario, artistico, linguistico. Tutto questo non è avvenuto a Hong Kong che ha ad esempio mantenuto e mantiene tuttora un rapporto molto vivo con la religione tradizionale – ovviamente la religione tradizionale del Sud della Cina, in parte diversa per i motivi geografici di prima da quella del Nord. A Hong Kong non c’è mai stata quell’interruzione delle tradizioni quotidiane portata dalla rivoluzione cinese e dalla rivoluzione culturale, e questo non solo come detto in campo religioso. Lo vediamo anche nell’alimentazione: in Cina le cucine locali erano state attaccate in quanto espressione borghese, mentre a Hong Kong sono molto vive sia la cucina cantonese, sia le cucine delle altre regioni cinesi portate dai rifugiati. C’è una continuità culturale ininterrotta che manca nella Cina continentale.

Il risultato delle recenti elezioni locali – con un’affluenza del 70 per cento e la vittoria dei candidati pro-democrazia – che cosa significa?

Innanzitutto che il tentativo, sia del governo locale di Hong Kong sia del governo di Pechino, di screditare i dimostranti come un piccolo gruppo di facinorosi che non rappresenta la volontà popolare, è completamente fallito. Non c’era mai stata così tanta affluenza alle urne, non c’era mai stata una così netta preferenza per i candidati pro-democrazia – tutti a sostegno dei manifestanti.

La bolla propagandistica è esplosa. Per sapere che cosa succederà adesso dobbiamo aspettare: i dubbi che potevano esserci su quanto rappresentativi fossero i manifestanti non ci sono più, vedremo quale sarà la risposta del governo.

Lei che cosa si aspetta? È possibile un’apertura al dialogo o il governo insisterà con la repressione?

Secondo me è possibile che ci siano alcune concessioni. Ma tutto dipende da quanto saranno significative: se saranno semplicemente pro forma, le manifestazioni continueranno come finora. Se invece si tratterà di concessioni un po’ più sostanziali, potremmo forse cominciare a vedere una spaccatura all’interno del movimento, perché i moderati potrebbero dire “ok, il governo ha fatto un passo avanti, facciamo un passo avanti anche noi e smettiamo di protestare”. Ma in mancanza di un approccio sostanziale, la situazione attuale non solo continuerà, ma potrà degenerare, come già accaduto da parte dei manifestanti – che hanno iniziato a usare metodi più violenti – e da parte della polizia che ha messo in atto una repressione molto più forte.

In questo momento quanta libertà c’è, a Hong Kong?

Molta. C’è molta libertà perché gli hongkonghesi l’hanno difesa con le unghie e con i denti in modo costante. C’è però più timore di prima: una delle cose che sicuramente ha causato ondate di panico è stato il rapimento dei cinque librai nel 2016 e il fatto che uno di loro fosse stato prelevato in strada e portato in Cina. Questo ha giustamente creato molto timore, molta paura e in alcuni campi – in particolare il giornalismo – ha portato a un aumento dell’autocensura. Ma una delle caratteristiche più salienti di Hong Kong – almeno nei 22 anni in cui sono stata lì – è la determinazione delle persone, pronte a scendere in piazza per lottare, per difendere le proprie libertà.

E lei si sente sicura, in questo momento?

Direi di sì.

Alle violenze a Hong Kong possiamo aggiungere la discriminazione degli uiguri e altre violazioni dei diritti umani. Con questo atteggiamento la Cina non teme di perdere credibilità internazionale?

La Cina non teme di perdere credibilità perché finora abbiamo accettato tutto, dalla Cina. Abbiamo accettato Tienanmen, abbiamo accettato delle imposizioni a livello commerciale e di investimenti che non avevano nessuna reciprocità. Per cui, se io fossi la Cina, continuerei a fare richieste molto superiori a quelle che in un certo senso mi merito, che sarebbe giustificato fare. Finché non incontrerà una resistenza o quantomeno un tentativo di riequilibrare questo rapporto, la Cina continuerà a cercare di ottenere di più – come farebbe chiunque altro. Da questo punto di vista, la responsabilità non è della Cina ma dei partner della Cina. Per quale forma di avidità continuiamo ad andare in Cina accettando così tanti abusi e soprusi? E questo non riguarda solo le aziende – quanti e quali compromessi fare è decisione del singolo imprenditore. Perché consideriamo i cittadini cinesi come “meno umani” di noi? Perché di fronte ad abusi in altri Paesi protestiamo e invece di fronte a un milione di persone in campi di lavoro quasi nessuno dice nulla?

Con il paradosso del governo cinese che si sente in diritto di protestare se una compagnia aerea considera Taiwan indipendente dalla Cina o se un manifesto pubblicitario mostra un viso parzialmente nascosto – cosa che sarebbe un richiamo agli insorti mascherati di Hong Kong.

Perché lo accettiamo. E lo accettiamo perché pensiamo che così facendo si venda di più e abbiamo aziende che continuamente si scusano. È chiaro che è una grossa richiesta, pensare che un’azienda possa rinunciare al mercato cinese. Ma allo stesso tempo: cosa stiamo perdendo quando accettiamo di definire Taiwan parte della Cina sui voli internazionali? Quando accettiamo di strisciare davanti a ogni piccolo sussulto di orgoglio dei cinesi che dicono “questa parola ci offende”, “questo riferimento ci offende”, “questa mano sull’occhio ci offende”?

Perché le proteste non provengono solo dalle autorità, ma anche dalla popolazione – e dai cinesi all’estero.

Certo, ma sta a noi decidere fino a che punto vogliamo accettare questo tipo di dettami che limitano la nostra libertà di espressione. La pubblicità con un occhio coperto sarà qualcosa di commerciale, sarà qualcosa di poco artistico, ma si tratta comunque di libertà di espressione.

È dal 1997 che Hong Kong vive sotto la politica ‘Una nazione due sistemi.’ Perché le tensioni si sono aggravate adesso? Che cosa è cambiato?

Xi Jinping. È cambiato il potere in Cina e oggi il segretario generale del partito comunista e presidente cinese è un uomo politico che ha scarsissima tolleranza verso ogni forma di dissenso – che avvenga in Cina, che avvenga a Hong Kong, che avvenga altrove. Vediamo questa intransigenza di fronte a ogni minimo sussulto perché Xi Jinping ha un modello autoritario molto più violento di quello che c’era prima. Non possiamo pensare che la situazione politica a Hong Kong non dipenda da quella di Pechino: con una persona così dogmatica e così dittatoriale al potere, è chiaro che a Hong Kong la situazione peggiora.

La Cina ha sempre avuto regimi autoritari. Come mai questa stretta, da dove arriva?

Penso che questa stretta possa essere analizzata da diversi punti di vista, uno dei quali è sicuramente personale e riguarda il carattere, la personalità di Xi Jinping. Un altro aspetto è che la Cina è cambiata e adesso ha una classe media maggiormente autonoma, che ha meno bisogno del governo rispetto a trent’anni fa, quando c’era Tienanmen e quando si aveva un sistema più tradizionalmente comunista: alloggi, lavoro, permessi di matrimonio erano tutti dati dal governo. Le libertà personali ora sono maggiori e l’unico modo che ha Xi Jinping per mantenere così tanto potere è aumentare i controlli e diminuire le libertà. L’unico modo che è stato scelto per contrastare un rallentamento economico che inizia a farsi sentire anche in Cina è l’innalzarsi della propaganda nazionalista: il discorso nazionalista è quello che sta assorbendo la maggior parte delle energie della propaganda.

Una situazione non molto diversa da quella che vediamo in Europa e non solo.

Certo: con variazioni locali, i meccanismi e le dinamiche sono le stesse.

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