ALLA FINESTRA

Una sera a Lugano: dopo Ludwig, il mondo di Addis

Fra il Lac e un ristorante etiope, fra Beethoven e la cucina ‘etnica’: quando sperimentare è un valore, un passo incontro alla vita

15 giugno 2019
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Giù per le scale del Lac, mi giungono le voci di alcuni melomani scandalizzati. Inserire una partitura moderna nel flusso di una sinfonia di Beethoven, inconcepibile. Dopotutto, ogni cosa al suo posto. Al nostro tavolo, al riparo della sua tenda, Addis ci racconta che l’altro giorno è entrato un signore corpulento. Le ha chiesto che cosa c’era da mangiare. Specialità del mio paese, se vuole. Ah, no-no!, ha detto lui, alzando le mani e ondeggiando nei vestiti troppo stretti. Mangiate insetti voi, o cosa? No, non mangio insetti, ha detto Addis, io sono etiope. Anche se questa storia degli insetti inizia a incuriosirla.

È un ex professore, l’uomo che esprime il suo sconcerto. Cerco di penetrare le sue ragioni. In ogni momento, la nostra capacità di lettura della realtà – di trovare una collocazione alla moltitudine di elementi che la compongono, compresi noi stessi – si fonda sull’ordine, sulla possibilità stessa di assegnare un ordine alle cose: nominare, enumerare, collocare. Riconoscere. Ora, comprensibilmente, se vai in cerca di Ludwig van non ti aspetti di incontrare un Mauricio qualcosa. Beethoven sta qui, Kagel lì. Che cosa hanno da dirsi questi due mondi? A pensarci, vien voglia di riascoltarli.

Quando ha aperto il suo ristorante, Addis si è sentita gli occhi addosso. Sorridevano, maligni. Cosa vuol fare ‘sta negra? Tempo tre mesi e chiude. Leggeva questo nei loro sguardi. A ricordarlo ride di gusto. Non è andata a scuola, lei, ma ha imparato a conoscere i propri limiti e le proprie qualità. E a fare il proprio lavoro con il cuore. In ogni piatto mette la sua gioia. Gli insetti, però, non riuscirà mai a mangiarli, né a cucinarli. Il ragù ha imparato a farlo divinamente, ma gli insetti no: è etiope, lei. Pare di cogliere una punta di rammarico nei suoi occhi, riflesso di un cedimento della curiosità che l’ha accompagnata nel mondo.

Al signore obeso, ci dice con un sorriso, che ha avuto un moto di paura all’idea di assaggiare la sua cucina, avrebbe voluto chiedere che cosa è buono per te? Cosa ti rassicura? Cosa fa bene? Il salame, la luganiga, il bratwurst? Osserviamo la sua pelle ambrata e luminosa, i lineamenti asciutti e flessuosi, gli occhi pieni di ironia. Non so darle un’età. Mi concentro sul piatto da portata su cui ha ritagliato un tondo perfetto del suo pane senza glutine, puntellato di legumi, verdure e carne con olio rigorosamente a crudo.

Nello sconcerto del vecchio prof di fronte al Beethoven rivisitato e nel ribrezzo di quel tale convinto di esser finito in un covo di mangiatori di larve, di colpo mi sembra di cogliere qualcosa di comune, un’analoga chiusura di fronte all’esistenza: l’una colta, l’altra becera.

Quando veniamo sottratti al nostro ordine, è forse un riflesso umano quello di fare un passo indietro. Rinunciare, per abitudine o per timore. Vorrei dire al vecchio prof che forse Beethoven si sarebbe chiesto il senso di quell’esperimento sulla sua musica; all’uomo obeso che il piatto di Addis era buonissimo, e leggero.

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