Ticino7

Forse è tutto un gioco: la 'gamification'

È la ludicizzazione: sfruttando l’innata propensione al gioco, si fidelizza il cliente

(iStock)
15 settembre 2018
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Vi sono almeno tre momenti di vita quotidiana che ricorrono, se non proprio tutti i giorni, certamente molto spesso.

Primo: la spesa al supermercato. Alcuni prodotti sono in promozione, altri «regalano» punti extra sulla tessera fedeltà. Dopo avere pagato alla cassa, l’occhio cade sullo scontrino per controllare i due totali: quello dell’importo e, subito sotto, quello del punteggio. Il pensiero corre al «premio» che potremo richiedere al termine della raccolta punti, che avrà luogo di lì a due mesi. 

Secondo: la domenica mattina. Fedeli al proposito per l’anno nuovo, che forse per la prima volta stiamo riuscendo a mantenere, usciamo a correre. Al polso, un braccialetto elettronico molto divertente da usare rileva la distanza percorsa, le calorie bruciate, la frequenza del battito cardiaco e il livello di ossigenazione nel sangue. Al termine dell’attività ci sentiamo bene: stanchi ma soddisfatti. La parte migliore, però, deve ancora arrivare: consiste nel condividere con gli amici che fanno lo stesso tipo di allenamento (e che hanno lo stesso dispositivo al polso) gli «obiettivi» raggiunti per quel giorno. 

Terzo: in un ufficio qualsiasi. In attesa al Controllo abitanti del nostro comune di domicilio, giunge il nostro turno (abbiamo atteso poco più di dieci minuti) e chiediamo all’impiegato il certificato di cui abbiamo bisogno. Il funzionario ci risponde gentilmente e, dopo qualche altro minuto d’attesa, il documento è nelle nostre mani. Mentre usciamo dall’ufficio, in alcuni Paesi è possibile notare accanto alla porta una colonnina di materiale plastico dai colori vivaci con quattro pulsanti a forma di emoticon: «contento», «abbastanza contento», «scontento» e... «scontentissimo». Sotto i pulsanti c’è scritto «Com’è andata?»; senza pensarci, qualcuno preme la faccina più sorridente. Nella navigazione in rete, questo tipo di richiesta è molto diffusa, per esempio dopo aver avuto contatti con la propria cassa malati o il gestore telefonico.

Il paese dei balocchi 

Forse non ce ne siamo ancora accorti, ma la «realtà» somiglia ogni giorno di più a un videogame: punti, premi, livelli, bonus, distintivi e ricompense sono tutti elementi caratteristici del gioco, così come lo sono, sul piano grafico, i «like» di Facebook, le «spunte» di WhatsApp, i pop-up dei messaggi pervenuti e le suonerie. E non si tratta di mere coincidenze o della nuova estetica «digitale»: questo processo ha un nome, si chiama «ludicizzazione» (in inglese gamification) e non ha niente, ma proprio niente di casuale. L’idea d’introdurre elementi ludici nelle attività quotidiane nasce nell’ambito del marketing come tecnica per fidelizzare i clienti e motivarli a comprare: il fatto che l’acquisto comporti un punteggio rappresenta infatti, dal punto di vista psicologico, un valore aggiunto perché viene associato all’idea del guadagno e configura un «obiettivo» (l’acquisizione di uno dei «premi» messi a catalogo dal punto-vendita). 

C’è qualcosa d’intrinsecamente gratificante nell’accumulare punti, «passare di livello» e scegliersi un «regalo», così com’è del tutto spontanea e volontaria l’attitudine al gioco, attività ricreativa per definizione. E la gente gioca, sempre di più: da quando, nel 2007, l’iPhone ha reso i videogame ubiquitari, il numero dei «giocatori» è lievitato; le previsioni per il 2018 parlano di 2,3 miliardi di gamers in tutto il mondo; in Svizzera, ciascun giocatore spende in media 49 franchi all’anno in materiale ludico. Parliamo di un fenomeno trasversale per età (non solo ragazzini, anche adulti e anziani...) e per genere (le donne costituiscono circa il 49% dei gamers). 

Nei suoi aspetti più nobili, il gioco rappresenta una forma d’evasione costruttiva perché ci rilassa, ci aiuta a socializzare e ci permette di sperimentare la competitività in forma non (eccessivamente) aggressiva; nei suoi lati più oscuri, fa leva su cupidigia, antagonismo e desiderio di riscatto. Comunque sia, abbiamo intere colonie neurali preposte a rispondere in maniera selettiva agli stimoli di gioco, e tutto ciò che gli somiglia tende ad apparirci istintivamente attraente. 

Mi hanno giocato…?

Questo semplice assioma ha ispirato non solo commercianti e addetti marketing, ma anche game designer – chi crea l’estetica di un gioco – quali Jesse Schell, che nel 2010 ha coniato il termine gamification, e Jane McGonigal, secondo la quale l’introduzione di elementi di gioco nella realtà può convogliare potenziali di cambiamento positivo, per esempio contribuendo a diffondere fra le persone una più spiccata sensibilità ecologica. In effetti, gli esempi virtuosi di ludicizzazione non mancano: dall’apprendimento, che diventa sempre più interattivo, alle applicazioni che promuovono una maggiore collaborazione domestica (Habitica). Ed è certamente vero che rendere più giocose le attività routinarie, come per esempio pulire casa, ne alleggerisce lo svolgimento. Il punto è il grado di consapevolezza che caratterizza il processo, ovvero se scelgo scientemente di giocare oppure se vengo «giocato».
Il confine non è sempre così netto...

 

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