Scienze

Quando arriverà l'intelligenza artificiale? 'Mai!'

Roberto Cingolani, direttore dell'Iit di Genova: Sognare è gratis, ma poi nessuno metterà un robot da dieci milioni a fare l'idraluco

iCub (Foto Niccolò Caranti)
18 maggio 2019
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Tutta colpa della fantascienza, che ci ha dato un certo tipo di immaginario su robot, androidi e intelligenza artificiale. «Adesso la gente chiede “ma quando succederà?” e la risposta è “molto probabilmente mai!”» ci spiega Roberto Cingolani prima di iniziare la sua conferenza ‘Noi e i robot, l’altra specie’, organizzata giovedì sera a Lugano dall’associazione Athena (un video dell’intervento è disponibile sul sito www.athenacultura.com/video.html). Un po’ della colpa, aggiungiamo, viene anche dal marketing e dai tecnoentusiasti, pronti a venderci la prossima “grande rivoluzione”. Per questo è interessante ascoltare qualcuno che «in mezzo a tanto entusiasmo, alle grandi aspettative, lavora davvero con queste tecnologie»: fisico di formazione, Cingolani è infatti direttore scientifico dell’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, importante centro di ricerca dove sono nati numerosi progetti, tra cui il popolare iCub, l’androide-bambino presente in una quarantina di laboratori in tutto il mondo.

Questa cosa è successa sempre, la differenza è che succede nel giro di una generazione: prima c’era il tempo di adattarsi

«Sognare è gratis – prosegue Cingolani – se uno ha una visione, la persegue; poi però il mondo reale è fatto di altri ingredienti, il primo di tutti è la ‘cost-effectiveness’: questa cosa qui deve costare in maniera ragionata». In altre parole: possiamo costruire un’intelligenza artificiale robotica in grado di fare l’idraulico, ma «non prendo una macchina da dieci milioni di euro per riparare un bagno: prendo un essere umano». Diverso il caso se si tratta di lavorare in luoghi pericolosi: possiamo pensare alla Luna, dove magari un giorno costruiremo una base, ai fondali oceanici, alle centrali atomiche o anche a una casa lesionata da un terremoto – e l’Iit ha effettivamente ispezionato, tramite robot, alcune abitazioni ad Amatrice. «Ma in questi casi non serve che i robot siano così intelligenti: possono essere teleoperati, manovrati a distanza da un operatore umano che se ne sta al sicuro».

Niente androidi indistinguibili dagli esseri umani, quindi, ma forse qualcosa di meglio: esseri umani che grazie alla robotica recuperano abilità perse. Cingolani ha mostrato il filmato di una protesi robotica che, dopo una fase di addestramento, permette alle persone amputate di muovere e stringere le dita, di aprire bottiglie, apparecchiare la tavola, tornare a lavorare. Abbiamo poi robot che assistono i bambini autistici o, forse meno emozionanti ma ugualmente interessanti, quelli che migliorano le condizioni di lavoro, ad esempio spostando i macchinari in modo da ridurre l’affaticamento delle persone. «Sono partito da un’analisi seria e onesta dei limiti della tecnologia, ma ho concluso mostrando cose che in realtà regalano una speranza».

E le preoccupazioni sui posti di lavoro portati via dall’automazione e dall’intelligenza artificiale? «C’è un continuo calo di posti di lavoro nelle “professioni di routine”, c’è sempre meno bisogno di persone che svolgono sempre la stessa operazione, sia intellettuale sia manuale» spiega Cingolani mostrando un grafico. Nel quale si vede anche un aumento dei lavori “non di routine”, anche qui sia intellettuale («l’intelligenza artificiale non ha creatività, per cui scienziati, intellettuali, ingegneri serviranno sempre») sia manuale («gli artigiani, che potrebbero essere sostituiti, ma non conviene»). «Questa cosa è successa sempre, la differenza è che succede nel giro di una generazione: prima c’era il tempo di adattarsi, le persone si adattavano, il sistema scolastico si adattava, il sistema produttivo si adattava».

Questo significa che se nel lungo periodo si creeranno più posti di lavoro di quelli che adesso spariranno, «nei prossimi quindici anni avremo gente che rimarrà sul lastrico». Il che è un problema ma, precisa subito Cingolani, «è un problema di organizzazione sociale», non tecnologico. E non si tratta solo di investire di più nella formazione continua delle persone e di valorizzare maggiormente la creatività e l’inventiva, ma anche di trovare dei parametri economici adatti alla nuova società.

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