Sanremo

Sanremo, dentro il museo del Festival (per staccare un po')

Tra le mura del Forte di Santa Tecla un percorso tematico che include cimeli, a partire dal vestito di Dalida nel funesto 1967. Ce lo racconta Dario Salvatori.

Showroom
8 febbraio 2020
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Sydney Pollack saprebbe come mettere in scena una settimana da inviati al Festival di Sanremo, in questa grande dance hall in cui si potrebbero anche uccidere i cavalli (per gli animalisti: ‘Non si uccidono così anche i cavalli?’ è solo un film, nessun animale è stato maltrattato). In questo posto in cui tutto scorre sino al giovedì, notte di grande musica reciproca, i duetti sono la sublimazione di un’arte che povera non è stata mai, se non per qualche Guidobaldo Maria Riccardelli appassionato di cinema d’essai che mai, con nessuna corazzata al mondo, riuscirà a strapparci alla manifestazione più splendidamente leggera e ricca di spunti. Senza la quale, la prima settimana di febbraio di ogni anno, non sapremmo di cosa scrivere.

È di venerdì mattina che guardandosi allo specchio con un minimo di attenzione si possono cogliere i segni rivelatori che è giunto il momento di staccarsi per qualche ora dal Mostro e dedicarsi ad altra attività che non sia la musica italiana. Ma è un attimo a dirsi e molto di più a farsi: Piazza Colombo è una discoteca a cielo aperto dalla mattina (prove) al pomeriggio (prove) alla sera (concerti) alla notte (concerti); Corso Matteotti ha dj in vetrina che sparano beat da negozio a negozio e artisti di strada che suonano ‘Caruso’ ad ogni angolo (della strada, in quanto artisti); c’è, in verità, anche qualche ottimo strumentista costretto però a suonare con frequenza da protettore gastrico ‘Hallelujah’ di Leonard Cohen, la nuova ‘Io vagabondo’ dell’entertainer.

Per staccare la spina non serve rifugiarsi nei bar che espongono il posterino di ‘70° Sanremo 2020. La mostra’ (ci manca solo la mostra del Festival), nelle pasticcerie che espongono vecchi vinili, nelle pizzerie dalla playlist ‘Sanremo: brani essenziali’, negli esercizi che ospitano i cartonati dei cantanti (sono in scala 1:1, a Raphael Gualazzi davanti alla farmacia abbiamo chiesto, senza successo, due dritte sull’indipendenza della mano sinistra). Chiediamo alla gerente del bar Festival (nome che di suo rende più complicato il distacco) se esistano musei; ci dice che «il Santa Tecla è uno spazio espositivo». Digitando “Giardini Vittorio Veneto, 34, 18038 Sanremo IM”, con opzione “a piedi”, giungiamo al Forte di Santa Tecla, struttura settecentesca a due passi dal mare, certi di avere letto ‘Santa Tecla’ da qualche parte non ricordando dove. Ma ricordarsi è un attimo.

Tra il Magnadyne e la tv al plasma

‘70° Sanremo 2020, La mostra’ è un bel titolo. Ma anche ‘Nessuno uscirà vivo da qui’ non sarebbe niente male, scomodando Jim Morrison (che nessuno ha mai invitato al Festival di Sanremo forse per il rischio che cantasse ‘The End’) per definire quella sensazione che da qui al casello per Genova, fino a domenica sera, non ci sarà modo di occuparsi d’altro.

La mostra è griffata Rai Teche, magma televisivo dal quale ricostruire i primi sessantanove anni di una manifestazione andata subito ben oltre i confini musicali. Complessivamente cinque le sale, la prima delle quali è la ricostruzione di un tipico salotto italiano degli anni Cinquanta nel quale convivono un antico radioricevitore Magnadyne e uno schermo al plasma di ultima generazione.

La storia del Festival è affidata alle pareti perimetrali del Forte, suddivise tra gli ‘Anni della radio’, il passaggio tra ‘Urlatori e cantautori’ tra il ’64 e il ’70, la sezione ‘Stranieri in gara’, fino alla nuova epoca d’oro 1988-2019. L’esperienza più inclusiva è poggiare le  terga su comode poltroncine in similpelle con le cuffie in testa, fruendo davanti a un maxischermo di ogni frammento musicale possibile, da Toto Cutugno agli Avion Travel.

Prima di parlare del centro emozionale della mostra, diciamo della ‘Sala degli oggetti e dei ricordi’, un posto in cui il ladro che è dentro di noi sceglierebbe di portarsi via – a scelta – un magnifico logo ‘Ariston’ full neon, una telecamera Rai che potrebbe essere quella di ‘Lascia o raddoppia’ o uno splendido microfono Rca, oggi icona sugli smartphone, un tempo macchina perfetta. I ladri del belcanto, però, potrebbero essere affascinati dagli atti giudiziari di una delle querelle più note del reuccio Claudio Villa, o la foto del suo pugno che sfonda la scrivania del patron del Sanremo 1983, reo di averlo escluso.

Un pezzo di Mimì

«Museo è una parola grossa», dice alla ‘Regione’ Dario Salvatori, responsabile artistico del patrimonio sonoro della Rai, che con Andrea Di Consoli ne ha curato l’allestimento. «Siamo partiti dall’immaginario, dai vestiti» spiega il curatore. I vestiti sono quelli contenuti nella ‘Stanza degli abiti’, uno showroom che espone l’outfit originale di ‘Non ho l’età’ (Gigliola Cinquetti, 1964), di ‘Maledetta primavera’ (Loretta Goggi, 1981), ‘Zingara’ (Iva Zanicchi, 1969), e anche una Hunziker in lungo, vestita di nero Armani per l’edizione 2018.

«Ho rotto le scatole a chiunque, soprattutto quelli in vita, ma anche alle famiglie di coloro che non ci sono più, avendo cortesi risposte da tutti». Due i vestiti più significativi: «Uno è senz’altro l’abito che nel 1967 Dalida avrebbe indossato per cantare ‘Ciao amore, ciao’ se Luigi Tenco non fosse morto». Quella notte Dalida lasciò Sanremo, abbandonando in hotel quel vestito creato da una stilista sanremasca. «È di un rosso vermiglione straordinario». C’è anche «una Mia Martini non da poco – uno degli abiti di ‘Almeno tu nell’universo’, correva l’anno 1989 – che ci fa piacere perché se anche Mimì ha colto le sue cose migliori lontano dal Festival, come altri hanno fatto, quel vestito ci stava».

Essendo la ‘Sala degli oggetti’ anche ‘dei ricordi’, stacchiamo pure noi un post-it da attaccare sulla bacheca: tra ‘Cari amici vicini e lontani’ e ‘Il Festival è truccato! Lo vince Fausto Leali!’, scegliamo il secondo, frase pronunciata nel ’92 da tale Cavallo Pazzo, trascinato via dal palco dalla security davanti a un incredulo (?) Pippo Baudo. Ci sembrava un modo divertente, in ore in cui il pronostico regna selvaggio, per celebrare tutti i pronostici finiti nel nulla (nel 1992 vinse Luca Barbarossa).

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