Locarno Festival

Col passo di Christo

Incontro a Locarno con l’artista, artefice di ‘Floating Piers’ sul lago d’Iseo

11 agosto 2018
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Christo è un signore esile e ossuto, apparentemente fragile in una nuvola di capelli bianchi. L’occhio arguto è però sempre pronto ad accendersi di curiosità, ironia o furore, rivelando quella tenacia che sull’arco di 60 anni lo ha portato in tutto il mondo a realizzare i suoi monumentali, effimeri progetti di Land Art, in gran parte concepiti con sua moglie Jeanne-Claude, morta nel 2009. Uno degli ultimi è stato Floating Piers, due anni fa sul Lago d’Iseo, la passerella composta di 220mila cubi di polietilene che ha dato a circa 1,5 milioni di visitatori l’illusione di camminare sull’acqua. A Locarno l’artista bulgaro-statunitense ha accompagnato Andrey M Paounov, regista di ‘Walking on Water’, film che racconta il lungo viaggio creativo e organizzativo che ha condotto Christo a realizzare la sua installazione.

Ciò che faccio è unico, quindi devo scoprire come realizzarlo: per me ora sarebbe sciocca un’altra Floating Piers, perché saprei già come farla

Se una collega gli chiede del progetto che qui, sul lago Maggiore, vorrebbe replicare la sua installazione, si limita a un evasivo «so molto poco al riguardo: ma non hanno certo bisogno della mia approvazione, possono fare quello che vogliono». Per il resto la Svizzera lui la conosce bene, ma non è il caso di parlare di eventuali progetti elvetici. Preferisce che sia il giovane regista a parlare del suo film in cui, dice, «si trattava di catturare e restituire un processo attraverso il linguaggio del cinema, di modo che il pubblico possa sentirsi parte di esso».

Il regista però coltiva una certa autostima mista a fastidio per le interviste, quindi evitiamo di dirgli che il suo intento ci pare raggiunto solo in parte e ritorniamo con piacere agli occhietti furbi di Christo. Un progetto ideato quasi 50 anni fa, più volte fallito per la mancanza di autorizzazioni, infine tornato a galla in Italia, coinvolgendo centinaia di persone. Eppure nel film la sensazione è quella di un uomo solo, in lotta con una sua visione. È così? «Quello che si vede è il mio viaggio verso la realizzazione del progetto. Ogni mio lavoro è un tutto fatto di tante cose, tutto ciò che devo vedere, trovare, verificare. Certamente mi piace vivere tutto questo, è questo viaggio ciò che amo. Ma non è una cosa che puoi realizzare se non ti disponi a farlo da solo».

Fra incontenibile vocazione creativa alla realizzazione di qualcosa di monumentale e fugace, e più bassi appetiti del marketing territoriale, la cosa più difficile è comunicare alle molte persone coinvolte il senso di ciò che sta facendo? «Erano coinvolti tanti professionisti, in un processo fin dall’inizio complesso. Il lavoro non sta nel risultato, ma in questo percorso verso il risultato. Perché abbiamo concepito questo progetto con Jeanne-Claude? Perché ci appariva come una spedizione, fatta di tanti piccoli passi. È qualcosa di unico che non potrà essere riprodotto. È questo l’importante. Ciò che faccio è unico, quindi devo scoprire come realizzarlo: per me ora sarebbe sciocca un’altra Floating Piers, perché saprei già come farla. L’aspetto eccitante sta proprio qui: concepire qualcosa che né io, né gli ingegneri né nessun altro esperto sa ancora come potrà diventare realtà. Negli ultimi 60 anni mi sono dedicato a cose mai fatte prima, che hanno richiesto anche 25 anni di lavoro, ma ciò che amo tremendamente è proprio quel viaggio».

A costo di diventare lo strumento di qualcuno? «Le persone vogliono sempre fare del marketing. Questa è la natura umana, cercare di nuotare in queste situazioni». E l’artista come può preservarsi? «L’importante è che nessuno possa usare il tuo nome, il tuo lavoro, le tue immagini. Abbiamo molti avvocati nel mondo attenti a proteggere anche Floating Piers».

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