Locarno Festival

Volevo essere Jack London

Incontro con Ethan Hawke. Dall’Attimo fuggente a Blaze, la parabola di una star impegnata, arrivata al cinema per caso. ‘So solo che volevo essere un artista’.

8 agosto 2018
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Quando si abbandona a gambe larghe sulla poltrona, abbracciando tutti con lo sguardo mentre con affabile, sorniona sicurezza esprime il suo pensiero, mi viene il dubbio che si stia divertendo nella caricatura di Bob De Niro. Ma no, Ethan Hawke è così. Il tipo di americano statuario che saluta tre sconosciuti con un franco «Hi Guys», perfetto incrocio, come la sua camicia abitata dalle meduse, fra il folclore del Texas e il gusto già fine della East Coast. Attore, scrittore, sceneggiatore, regista... Hawke si presenta come quel tipo di americano energico, propositivo, animato dal fuoco creativo, da una istintiva, infaticabile necessità di espressione, scevra da dubbi e ripensamenti. Certo, un po’ compiaciuto, ma inflessibilmente fedele al bisogno di dire e di esserci, più che a quello di apparire.

Infatti, ha detto stamattina, all'idea di ritirare in Piazza un pardo alla carriera, «mi preoccupa l’idea di costruire la leggenda, mi interessa la vita. Mi sembra quasi strano ricevere un premio, come se mi premiassero perché ho il naso: per me quello che faccio è naturale». Stasera a Locarno Hawke ha presentato pure il suo ultimo film da regista, ‘Blaze’, sul cantautore folk Blaze Foley, ucciso nel 1989: il classico profilo del perdente di talento, bohème fra le strade del Sud degli Usa che poco alla volta smarrisce se stesso e l’amore della sua vita, restando però aggrappato alla musica (a dire il vero il film lo racconta in modo per niente convincente).

Oggi, due incontri con Hawke: il mattino in conferenza stampa, nel pomeriggio in hotel, con altri due giornalisti. «Ci siamo già visti?», mi chiede subito con l’occhio di chi deve mettere ordine nella propria prodigiosa memoria fotogratica. «Sì, stamattina, ero fra i tanti in sala stampa». «Ah, ecco. Ok». Possiamo iniziare.

Dall’inizio: «Da ragazzo il primo libro che ho pensato di scrivere mi ha fatto capire che le nostre esperienze non sono così uniche. Allora si fantastica su un’altra persona, nella quale si inseriscono dettagli di noi. Ognuno di noi ha una storia che merita di essere raccontata».

La sua somiglia a quella di altri attori. Arrivato in New Jersey, a 12 anni, ha trovato un amico, un giorno lo ha seguito a un casting... E a 18 anni si è ritrovato sul set con Peter Weir e Robin Williams, ‘L’attimo fuggente’: «È stata un’esperienza straordinaria. Robin è stata una delle persone più creative ed energiche che ho incontrato: trovarmi con lui è stato come vincere alla lotteria, mi sono buttato, ho cercato di fare un buon lavoro. Oggi so solo che ho sempre sentito l’esigenza di essere un artista, di comunicare: da ragazzo volevo essere Jack London».

Per Hawke portare sullo schermo l’umanità è sempre un atto politico. Quella di Blaze è un’umanità ai margini: la casa su un albero, lo scontro con la città, i concerti in locali minori, l’alcool, la nostalgia dell’amore perduto, le notti con gli amici (il figlio sbandato di uno dei quali lo ucciderà). A un certo punto sembra rinunciare in modo consapevole al successo. Quale America voleva raccontare? Esiste ancora? «Quando sei nato in Texas, senti il Sud, ti comunica tante cose. C’è una forza, un colore, uno spirito, quello dei poeti e dei musicisti. Sopravvive al Sud un’onda bohème, un pensiero libero e progressita, un’apertura mentale».

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