Locarno Festival

Ego te absolvo

È liberatorio o angosciante portare la nostra vita su uno schermo, dando in pasto al pubblico la storia (tragica) della nostra famiglia? Ho osservato Richard Billingham negli occhi...

7 agosto 2018
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Le opere che mettono in scena le storie intime di chi le produce sono da bandire oppure vi sono casi in cui la sofferenza personale può diventare universale e liberatoria? Insomma, l’arte come terapia riesce ad avere un valore? Chissà quante volte ci siamo posti questa domanda, magari mentre scrivevamo una poesia per un nostro amore mancato o per la mamma che se ne è andata, o ancora per dare sfogo ai pensieri ossessivi che non ci lasciano. Ma una volta che sono su carta, su tela o su pellicola, bisogna farli vedere agli altri?

Troviamo una sorta di risposta nella meritevole e cruda opera di Richard Billingham, proiettata in concorso e recuperabile ancora oggi. Girato in finto Super 8, vale a dire con i lati dello schermo che restano neri e restringono la visuale, Ray&Liz ha per protagonista la classica famiglia occidentale: uomo, donna, due bambini. Non c’è scena però che non veda coinvolto anche un universo di animali, tutti rigorosamente in gabbia o reclusi tra quattro mura, cani, iene, giraffe, lumache. La prima scena, che si svolge nel cubicolo del padre quando, ormai vecchio, aspetta la morte bevendo birra artigianale, insiste su un insetto. Non è la scena più disgustosa, anzi, questa mosca, che tornerà a mostrarsi, ricorderà sempre più sguaiatamente lo scarafaggio del racconto di Kafka. Si tratta di Ray, l’indolente, rinunciatario uomo e padre, che insieme al lavoro sembra aver perso ogni interesse per la vita.

Lui e la moglie, una donna laida e priva di affettività, sono interessati solo ad alcol e nicotina. I figli, perciò, crescono nella miseria di una casa e di una Birmingham che diventano la periferia della periferia del mondo libero. La tappezzeria, la cucina, i letti ma anche le strade di questa città sono sporchi, lasciati andare, hanno toni sbrindellati e sciatti. Ne risulta un film che ha il merito di evitare la facile denuncia sociale preferendole il crudo ritratto, denso di una pietas che non è commiserazione, semplice presa d’atto, documentazione. La narrazione ha due vette, che coincidono con due semplici lacrime. Quelle di Liz e di Ray, i quali, a distanza di anni, si accorgono di aver condotto una vita sbrindellata, fallimentare e che riscuote, come fio, la perdita dei figli.

All’uscita dal Fevi ho, per un attimo, incrociato lo sguardo del regista, che non ha mai nascosto di aver messo su schermo la propria esperienza, i propri genitori, sé stesso e suo fratello piccolo. La storia è infatti potente e sentita, riuscita come tante cose che nascono dall’urgenza. Mi ha colpito però il volto affranto, l’occhio perduto di un uomo che aveva appena fatto i conti con le conseguenze del suo gesto. Perché questi genitori-bestie da zoo erano diventati cibo per i pasti di cinque, diecimila spettatori voraci alla ricerca di scene forti e storie robuste. Forse il regista inglese ha scoperto, mentre le immagini correvano verso di noi, che c’è un punto di rottura quando la terapia si fa arte.

Forse l’esito della pubblicazione di un’opera che parla dei nostri dolori non è sempre lo scioglimento del dramma, la redenzione, la liberazione dai fantasmi. Quella che ho visto in quest’uomo un po’ panciuto, curato senza essere elegante, dalla pelle velata di rosso, mi è parsa angoscia vera. Magari perché, sentendo la nostra pietà, il nostro disgusto verso quegli attori che sullo schermo impersonavano i suoi genitori, ha sentito muoversi qualcosa dentro. E allora ha pensato di aver sbagliato a usare l’arte per capirli, per farli assurgere a esempi del male contemporaneo. Forse ha sentito il dovere di proteggerli, da noi ma anche da sé stesso. Dallo sguardo di chi prende posto sulla poltrona, consuma, sbrana, defeca.

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