Locarno Festival

Amur senza fin, commedia in romancio al Festival

Amori, incoerenza, tradimenti, chiusura e cambiamento in un paesino della Surselva in cui arriva un parroco indiano. In programmazione domani alle

2 agosto 2018
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Nel giorno della Festa nazionale, può apparire significativo che il Festival apra le proiezioni con un film svizzero, girato a Sagogn e recitato in romancio – in programmazione ancora domani, venerdì, alle 19 al Palacinema. In effetti lo è, ma non è questo il punto. Come ci dice Christoph Schaub, uno dei registi svizzeri più esperti e amati dal pubblico. Il romancio non era solo un vezzo originale o un omaggio a una delle minoranze elvetiche: «Anzitutto è una realtà, in Svizzera abbiamo quattro lingue, e una di queste è il romancio. Però, ciò che era più interessante per me e per gli attori, è che il romancio dava un’altra atmosfera al film. È una lingua latina, favorisce un’altra espressione dell’emozione, è più forte, più diretto».

In effetti, in ‘Amur senza fin’, di emozioni ne circolano molte, tutte sviluppate sul filo della commedia. Ben scritto da Sabine Pochhammer e diretto con mano sicura da Schaub, ‘il film è ambientato in un piccolo paese della Surselva in cui un bel giorno arriva un nuovo parroco: indiano. In uno schema già visto quanto inesauribile, è questo il fattore scatenante una serie di eventi che stravolgeranno la vita di una comunità in cui non mancano bassezze e ipocrisie, a cominciare dalla vita di Mona e Gieri (Rebecca Indermaur e Bruno Cathomas). In gioco c’è un matrimonio che si trascina stancamente da 20 anni e il consiglio che il nuovo prete dà a Mona è di guardare alla tradizione indiana del Kamasutra...

Questo sarà solo l’inizio di una serie di eventi imprevedibili che faranno emergere tradimenti, rivalità, solitudini, sogni mai realizzati e chiusure identitarie, ma anche solidarietà, bisogno di ascolto e di riconoscimento. Un percorso a lieto fine – in cui trionfa un po’ facilmente il valore della verità e in cui si perde un po’ la profondità dei caratteri e dei conflitti – ma in cui non mancano le rotture e le sconfitte, e che non manca di stimolare qualche riflessione su temi come l’accoglienza del diverso, la necessità della Chiesa di cambiare il modo di comunicare, la superficialità con cui spesso viviamo le relazioni. Il tutto in un panorama molto grigionese, dominato dalla montagna in cui si consuma una inesauribile caccia allo stambecco...

Insomma, un film che dimostra come si possa fare anche in Svizzera un cinema leggero ma non vacuo, professionale ed esportabile. Ne abbiamo parlato con il regista.
Tanto per iniziare, una commedia ambientata in piccolo paese dei Grigioni, recitata in gran parte in romancio: che cosa ha pensato quando glielo hanno proposto? «Ho pensato che era una buona idea, non si fanno spesso dei film in romancio... Io poi sono legato ai Grigioni, ci avevo già girato un documentario in romancio e ci ho passato tante vacanze. Quello che mi è piaciuto è che si trattava di una storia moderna, calata nella quotidianità, universale».
La commedia può rivelarsi un mezzo privilegiato per far riflettere su determinati temi contemporanei, come l’accettazione di sé e del diverso, la rivalutazione del ruolo della donna, il valore del matrimonio al di là di vecchie convenzioni sociali. Qualcosa lentamente sta cambiando nel cinema svizzero, per cui si batte di più la strada del riso? «Certo, del resto non c’è molta differenza fra ciò che vivono le persone di questo piccolo villaggio dei Grigioni e il resto della Svizzera, sono appunto questioni universali. Io ho sempre fatto delle commedie, amo questo genere di cinema e ho sempre trovato sciocco che in Svizzera lo si evitasse. L’unica cosa grave, quando si fa una commedia, è che il pubblico non rida...». 

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