Figli delle stelle

La versione di Elton

'Me Elton John' ★★★★✩ - ‘La cosa più bella del rock è che uno come me può diventare una star’. Un'autobiografia che è un capolavoro di autoironia

'Elton, quello non è un giardiniere, è Bob Dylan' (Keystone)
24 ottobre 2019
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“Sullo Starship c’era un bar decorato in foglia d’oro e arancione con dietro un lungo specchio, un organo, tavoli da pranzo, divani e un tv con videoregistratore. Mia madre ne approfittò per vedere ‘Gola profonda’ – «È sulla bocca di tutti o sbaglio? Di cosa parla?» – mentre pranzava. Quali che fossero gli atti osceni di cui si erano macchiati i Led Zeppelin a bordo dell’aereo, sono sicuro che non avevano mai passato un’ora a scompisciarsi dalle risate mentre una signora di mezza età strillava inorridita osservando Linda Lovelace all’opera”.

Non sarà la migliore delle autobiografie, anche perché giunta in coda a un biopic non indimenticabile (anzi, da dimenticare). Però in ‘Me Elton John’ (Mondadori) c’è, finalmente, quella parte di star che nel film non si coglie, il colto e sboccato concentrato di umorismo black e british dalla vita in bilico tra l’arte dell’intrattenimento più puro e la più pura deriva umana. Cose da ‘Teatro di Sabbath’, ma di un Roth in versione ‘cocaina’. Come quella notte in cui Elton scambiò il Menestrello per un giardiniere, chiedendo chi fosse “quel tizio trasandato” e “come si permettesse di prendersi da bere”; Dylan relegato con Simon e Garfunkel tra i peggiori giocatori di sciarada (“L’uomo di lettere più straordinario della storia del rock, e non riusciva a dirti se una parola aveva una sillaba o con cosa faceva rima”).

‘S’intitolava Hey Jude’

È arcinota la storia del timido Reginald Kenneth Dwight, adolescente della provincia londinese incapace di trasgredire (“esistono monaci benedettini più scatenati di me da teenager”) ma con dentro il sacro fuoco della musica; è noto il suo incontro con il paroliere Bernie Taupin (che per lavoro “trasportava cariole piene di polli morti, ma i suoi testi non erano niente male”); sono noti i fallimenti iniziali dello scrivere per altri cose che gli altri non volevano nemmeno vedere e la gavetta da tastierista per Long John Baldry, “eccentrico cantante blues gay alto due metri con il vizio della bottiglia” dal quale prese metà del nome d’arte. E così, archiviate le tappe obbligate della leggenda, l’autobiografia è un pozzo di aneddoti: da Paul McCartney negli studi di Dick James (editore di Elton e dei Beatles) che si siede al piano e “per otto minuti ci fece ascoltare un pezzo (...) S’intitolava ‘Hey Jude’” alla festa a casa di Neil Young “che ci suonò tutto il suo nuovo album alle due di notte (…) Fu così che ascoltai il capolavoro ‘Heart of Gold’”.

Stevie Wonder e il gatto delle nevi

‘Me Elton John’ – scritto con Alex Petridis, critico musicale per The Guardian e GQ – è soprattutto un capolavoro di autoironia. “Più che ai dettagli della mia vita sessuale – scrive l’artista citando il coming out del 1976 al Rolling Stone – la stampa britannica sembrava interessata ai dettagli del mio cuoio capelluto”, da cui l’approfondito iter tricologico che porta al “toupet fatto dalle stesse persone che fabbricano le parrucche per i film di Hollywood”. Si ride anche leggendo i dettagli della sindrome da acquisto compulsivo: “Probabilmente sarei riuscito a sopravvivere anche senza un tram in giardino (...) o il Tyrannosaurus rex in fibra di vetro a grandezza naturale” che fu di Ringo Starr. Ma ci sono anche la riproduzione del trono di Tutankamon, i Rembrandt, la più grande collezione di mobili Bugatti, i vinili e tutto l’acquistabile ad occupare, imballato, un campo di squash (rimpianto quando era ancora un campo di squash).

Una notte da leoni

Gli aneddoti, infiniti, si prendono il grosso di ‘Me Elton John’. C’è Stevie Wonder “che un giorno si presentò con un gatto delle nevi, insistendo per guidarlo di persona”, c’è la sera in cui Elton e Lennon, “chini sopra una montagna di coca”, non aprirono la porta ad Andy Warhol con la sua Polaroid, e quella in cui Sylvester Stallone e Richard Gere quasi vennero alle mani per conquistarsi Lady D. divenuta single. Su tutti, la ‘Notte da leoni’ dopo le riprese del videoclip di ‘I’m Still Standing’ (“Non ricordo nulla se non che i Duran Duran erano uno spasso e che il vodka martini andava giù che era un piacere”), l’asta di Sotheby’s per vendere tutto “ma finii per comprare due quadri di avanguardisti russi”, la richiesta di fermare il vento che soffiava contro le finestre di un albergo, in preda a una mezza overdose. In mezzo a cotanto pulp, ci sono il benefattore, il marito e il padre (ognuno la pensi come gli pare) e il rapporto compositore-paroliere più lungo della storia: fallito il provino come solista, all’Elton giovanissimo l’etichetta consegnò una busta con i testi di un altrettanto giovane poeta del Lincolnshire, forse per dare un’opportunità ad entrambi, forse per toglierseli di torno. “Le parole di Bernie avevano qualcosa di magico, mi facevano venire voglia di comporre. Accadde non appena aprii quella busta, sulla metropolitana di ritorno da Baker Street. E accade ancora oggi”.

 

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